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Quella furia abortista contro i Centri di aiuto alla vita



Cosa c'è di tanto irritante nel rendersi disponibili a condividere le difficoltà di una donna in stato di gravidanza? Cosa c'è di così urtante nella presenza silenziosa e operosa, mai giudicante e sempre accogliente, dei Centri di aiuto alla vita? Cosa suscita reazioni sguaiate, aggressive, offensive, nel ricordare che la maternità riguarda anche la fase della gravidanza e nel mettere in luce che quando una donna è incinta, nel suo grembo c'è un bambino? Eppure, la solidarietà, la condivisione, l'accoglienza poste sul fronte della maternità durante la gestazione e lo sguardo su quel piccoletto che vive e cresce nel seno della mamma, sollevano polemiche a non finire. Si accende una censura durissima che diventa vero e proprio boicottaggio, un'azione intimidatoria all'altezza di un regime dittatoriale. Gli esempi scatenanti sono numerosi. L'ultimo in ordine cronologico riguarda l'emendamento al decreto per l'attuazione del piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) in base al quale, nel riordino del sistema regionale, si prevede che i consultori possano avvalersi «senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica, anche della collaborazione di soggetti del terzo settore che hanno una qualificata esperienza nel campo del sostegno alla maternità». Un emendamento che vuole semplicemente abbracciare in una logica di condivisione e solidarietà le donne-mamme, oltretutto facendo riferimento alla competenza di un collaudato servizio. Cosa c'entrano i commenti velenosi, gli insulti e le scritte offensive rivolte ai Centri di aiuto alla Vita, i pungenti antagonismi partitici? Evidentemente c'è davvero qualcosa che irrita e non può essere il “ritornello” dell'oltraggiata legge sull'aborto. Infatti, è proprio la legge 194 che, per quanto ingiusta, prevede una certa attrazione per la nascita legata principalmente ai consultori.

Tanto per cominciare, è opportuno ricordare che nel corso del dibattito parlamentare, dopo una prima bocciatura da parte del Senato della proposta poi divenuta legge 194, la norma sui consultori fu trasferita dalla fine all'inizio del testo per dimostrarne lo scopo primario di prevenzione dell 'aborto una volta avvenuto il concepimento. Una conferma viene dall'incipit dell'art. 2: «i consultori familiari istituiti dalla legge 29 luglio 1975 n. 405, fermo restando quanto stabilito dalla stessa legge, assistono la donna in stato di gravidanza». Ora, l'art. 1 della legge 405/1975 impone ai Consultori «la tutela della salute della donna e del prodotto del concepimento». A parte il tono neutro dell'espressione “prodotto del concepimento”, viene fatto salvo l'obbligo di tutelare la salute del figlio insieme a quella della madre. Non si tutela la salute cagionando la morte. Inoltre, tutte le disposizioni dell'art. 2 della legge 194 indicano che la funzione principale dei consulenti è alternativa a quella di permettere l'aborto e che ai consulenti sono affidati compiti attivi in ​​direzione della prosecuzione della gravidanza. Innanzi tutto, «contribuire a far superare le cause che potrebbero indurla all'interruzione della gravidanza» , l'assistenza deve essere effettuata «attivando direttamente o proponendo all'ente locale competente o alle strutture sociali operanti sul territorio speciali interventi, quando la gravidanza o la maternità creino problemi per i quali risultano inadeguati i normali interventi» (gli speciali interventi possono consistere in interventi socio-sanitari, legali, economici, di qualsiasi tipo). Inoltre, fornire informazioni «sulle modalità idonee ad ottenere il rispetto delle norme della legislazione sul lavoro a tutela della gestante» e «sui diritti a lei spettanti in base alla legislazione statale e regionale e sui servizi sociali sanitari e assistenziali concretamente offerti dalle strutture operanti nel territorio», le informazioni possono riguardare anche l'aborto, ma non esclusivamente e, comunque, non implicano affatto un obbligo di autorizzarlo al di là delle possibili informazioni su di esso. In questo contesto è di grande rilevanza la facoltà dei Consultori di «avvalersi per i fini previsti dalla legge, della collaborazione volontaria di idonee formazioni sociali di base e di associazioni del volontariato, che possono anche aiutare la maternità difficile dopo la nascita». La forza della disposizione sta nella parola “anche”. Essa implica che le associazioni che possono essere coinvolte sono quelle che aiutano la maternità sia prima che dopo la nascita. L'art. 5 conferma: nel colloquio il consultorio ha il compito di «esaminare le possibili soluzioni ai problemi proposti», aiutare la donna «a rimuovere le cause che la porterebbero all'interruzione della gravidanza», «promuovere ogni opportuno intervento atto a sostenere la donna, offrendole tutti gli aiuti necessari sia durante la gravidanza sia dopo il parto».

Tornano le domande inziali: perché allora tanto subbuglio, tanta scomposta reattività, tanta pretesa di censura al punto che anche l'UE è intervenuta per escludere dal PNRR quanto proposto dall'emendamento?

La spiegazione immediata è che la legge 194 è ambigua perché la logica abortista contamina anche le disposizioni favorevoli alla nascita oscurando il bambino non nato e il suo diritto alla vita, riconosciuto anche dalla Corte costituzionale (sentenza 35/1997). Per questo con il passare degli anni, l'applicazione e l'interpretazione della legge si è adeguata sempre di più alla pretesa di affermare l'aborto come un diritto umano fondamentale (“Il diritto di aborto è stato riconosciuto come ricompreso nella sfera di autodeterminazione della donna”, Cass n. 14979 del 2 aprile 2013), espropriando di conseguenza i consulenti dei loro compiti a tutela della maternità durante la gravidanza. Di qui le polemiche ei tentativi di insabbiare l'emendamento in questione, screditandolo e ritenendolo a torto una minaccia alla 194.

Ma c'è anche una spiegazione che va più in profondità: impedisce che l'attenzione sulla maternità si porti anche sulla fase della gravidanza la quale – non dovrebbe esserci neanche bisogno di dirlo – riguarda la relazione della donna-mamma con il bambino-figlio che vive e cresce nel suo grembo. È di “lui”, il più povero dei poveri, il più piccolo dei piccoli, il più inerme degli inermi, che non si deve parlare; è “lui” che non si deve vedere, che deve essere scambiato per un “grumo di cellule”, che anche se esiste non deve esistere, come se quel grembo fosse vuoto, che va cancellato prima di tutto nella mente e poi anche, se del caso, fisicamente. Questo significa “diritto di aborto”. Riconoscerlo per ciò che è – uno di noi – scomoda e rompe gli assetti, perché implica una “conversione” all'amore per ogni essere umano (cioè per ogni persona, siamo tutti uguali in dignità), un vero rinnovamento a tutti i livelli della società che butta giù i muri dell'individualismo più spinto e invoca per tutti la verso responsabilità l'altro. Una responsabilità vera e piena che riguarda anche la donna, spesso “costretta” ad abortire per mancanza di alternative. Dove sta, allora, la libertà?

Ecco, quindi, la questione irrinunciabile: riconoscere che quando si parla di maternità e gravidanza non si può fare a meno di considerare colui che abita il grembo della mamma: è uno di noi. Di qui un dovere pubblico di solidarietà molto importante: garantire alle donne la libertà di accogliere i figli, superando con lei gli ostacoli che una gravidanza difficile o la non attesa può comportare. La ricchissima e collaudata esperienza dei Centri di Aiuto alla Vita mostra che questa è la via per rendere le donne davvero libere e serene. A livello pubblico chi meglio dei consultori familiari può adempiere il compito di rimuovere e superare le difficoltà che spingono a optare per l'aborto, coinvolgendo, eventualmente, realtà che per la loro competenza possono sostenere la maternità sia prima che dopo la nascita? A chi polemizza vanno ricordate le parole che il Comitato Nazionale per la Bioetica ha scritto in un parere del 2005 sulla gravidanza: «La relegazione di una donna nella solitudine, sia essa materiale o morale, dinanzi all'impegno della maternità costituisce infatti violazione radicale della dignità umana della donna medesima e del figlio, e nel contemporaneo rappresenta il fallimento dei vincoli solidaristici fondamentali per la convivenza civile» .





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