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Flora Monti, staffetta partigiana a 12 anni e testimone della Resistenza


Flora Monti ha fatto solo la seconda elementare. La povertà, la guerra l'hanno fatta crescere in fretta. Ma le è sempre rimasto il rimpianto di non aver potuto studiare. Ora però che ha 94 anni a scuola ci è tornata, anzi in tante scuole, per raccontare ai bambini e ai ragazzi di quando alla loro etàtra il 1943 e il 1944, sull'Appennino bolognese faceva la staffetta partigiana. Una storia unica, sia perché Flora era solo una bambina con un coraggio e una determinazione senza pari, sia perché ormai a poter dare testimonianza della Resistenza sono rimasti in pochissimi. Ed è quindi prezioso il documentario che la regista Martina De Polo, dopo un lungo crowdfunding, ha girato sulla vita della partigiana Flora. Un film che sarà proiettato in anteprima al cinema Modernissimo di Bologna il 21 aprile e che poi verrà programmato in numerose sale di diverse città italiane in occasione della Festa della Liberazione. «Io sono cresciuta con i valori dell'antifascismo», racconta Martina, «e quando il mio collega Alex Sforza ha assistito a teatro alla rappresentazione della vicenda di Flora da parte di una compagnia amatoriale di teatro civile mi ha proposto di farne un documentario. È stato un parto lungo, non è facile in Italia trovare fi nanziamenti e visibilità per questo tipo di operazioni. E abbiamo arruolato gli stessi attori della compagnia teatrale per le scene che si alternano al racconto di Flora. Mentre per fornire i riferimenti storici degli avvenimenti narrati abbiamo fatto parlare una ragazzina, Deina Palmasche non aveva mai recitato: vuole fare l'astrofisica, ma ci teneva a far parte del progetto perché credeva nella Resistenza, tanto da cantare nel Coro resistente».

Siamo andati a trovare Flora Monti nella casa di San Lazzaro di Savena (Bologna), in cui vive da sola da quando, nel 2009, è morto il marito Orfeo. Con lei per l'occasione c'è la figlia Valeria Bernardi: «Mamma tiene alla sua indipendenza, non vuole neppure nessun aiuto domestico, continua a partecipare alla vita dell'Anpi e non si perde un comizio politico», racconta.

Flora ci viene ad aprire sfoggiando al collo il foulard dell'Anpi. È minuta ma energica, e sempre sorridente, e ricorda perfettamente tutto quello che accadde durante la guerra: «Io vivevo con la mia famiglia a Monterenzio, mia mamma Maria aveva studiato da levatrice ma poi faceva la contadina come mio papà Olindo. Con noi c'era nonno Achille che mi raccontava sempre di come lui aveva rifiutato di prendere la tessera fascista e per questo motivo veniva spesso picchiato a sangue dagli squadristi. In famiglia eravamo tutti antifascisti, in giro si sapeva. Per questo pochi giorni dopo l'Armistizio una mattina mio padre trovò nell'aia una ventina di ragazzi fuggiti dal distretto militare di Bologna con ancora indosso la divisa. Mia madre li rivestì con gli abiti dei miei due fratelli maggiori che erano in guerra, quelli poi si disperdero nella montagna eformarono la prima brigata partigiana della zona, la 66ma Brigata Garibaldi JacchiUN”.

Sulle montagne i partigiani avevano bisogno di comunicare tra un gruppo e l'altro e l'unico sistema era utilizzare delle staffette con dei messaggi scritti in bigliettini che potevano essere nascosti nei vestiti. I soggetti ideali per non destare sospetti erano le ragazze. «Quando mi chiesero se volevo fare la staffetta avevo 12 anni. Chiesi il permesso ai miei genitori e mia madre, pur sapendo del pericolo che avrei corso, mi disse soltanto: “Se te la senti”. Io me la sentivo. E così cominciai ad attraversare i boschi con i bigliettini in una scarpa o infilati nelle trecce dei capelli. La paura c'era, i boschi pullulavano di tedeschi che non facevano sconti neppure alle ragazze. Una di noi, Francesca Edera De Giovanni, fu scoperta, torturata e fucilata. I partigiani mi avevano insegnato a mettere l'orecchio a terra per capire se c'erano rumori di pattuglie in avvicinamento. E poi, come scusa se mi avevano fermato, dicevo che stavo andando a comprare i sigari per il nonno.

Una volta dovevo arrivare fino su un'altra montagna per raggiungere la Brigata Stella rossa. Ci misi più tempo del previsto e quando tornai a casa era già buio: trovai mia madre che piangeva. In un'altra occasione temetti che fosse arrivata la fine: qualcuno doveva aver fatto la spia, perché i tedeschi mi fermarono e mi fecero spogliare lasciandomi in mutande e canottiera. Poi mi chiesero di togliermi anche le scarpe: il biglietto era lì, ma nello sfilarmene, col cuore in gola, venne via anche la calza e il biglietto non saltò fuori. Io comunque non volevo mai leggere cosa ci fosse scritto, così se mi avevano fermato e torturato non avrei potuto rivelare nulla». Sono tanti gli episodi che Flora ci affida: «Una notte sentimmo bussare alla porta: erano tre ufficiali, due inglesi e un americano, che cercavano rifugio e dopo qualche giorno ci hanno chiesto di far loro da guida nei boschi. Li accompagnammo, io e mia madre, e loro ci dissero che se si fossero salvati avrebbero sparato un colpo sul campanile del Monte delle Formiche. E successo proprio così. Poi, dopo la guerra, ci arrivò una lettera da Winston Churchill che ringraziava mia madre per aver salvato i due inglesi».



Nel 1944, con l'intervento degli alleati americani, Flora ei suoi genitori furono fatti sfollare con un viaggio terribile in quello che allora era il campo profughi più grande d'Italia: Cinecittà. A guerra finita trovarono la loro casa distrutta, ma la famiglia era di nuova unita dopo il ritorno dei due fratelli di Flora dalla guerra. Con il matrimonio, Flora si trasferirà a Bologna e lavorò nella bottega di famiglia. A bordo di una lambretta sfrecciava per le vie della città a fare le consegne. E ha continuato a sentirsi una partigiana, partecipando alla vita dell'Anpi («ho la tessera da quando è nata», dice con orgoglio), alle cerimonie di commemorazione, fiera delle medaglie ricevute, testimone di quella lotta per la libertà in nome della quale, anche se era solo una bambina, ha scelto di fare la sua parte rischiando la vita.





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