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Quei preti in fabbrica al servizio di tutti



L'intuizione arriva nel 1943 con l'Italia quasi nel baratro. La disfatta in guerra è vicina. Poi la caduta del fascismo – ma non ancora la fine del regime – e la firma dell'armistizio. Chi s'illude che tutto sia finito non ha fatto i conti con l'occupazione nazista e con la nascita della Repubblica Sociale Italiana.

L'arcivescovo di Genova, il cardinale Pietro Boettoraduna i suoi preti e gli dà un compito delicatissimo: entrare nelle fabbriche, ascoltare la voce dei lavoratori, dare conforto e sostegno in una fase drammatica. Unica condizione: «Siate e sempre solo preti. Non schieratevi, non fate distinzioni fra impiegati, dirigenti e sindacalisti».

A convincerlo, un episodio accadutogli due anni prima, nel '41, quando era andato in visita allo stabilimento della San Giorgio a Sestri Ponente ed era stato accolto con freddezza dagli operai: «È nostra responsabilità», commentò, «non ci siamo fatti conoscere: dobbiamo essere noi ad andare in mezzo a loro».

Il peggio, a Genova, doveva ancora venire. Subito dopo l'occupazione, la produzione che le fabbriche possono garantire diventa al centro della pressione nazifascista. E dopo i primi tentativi di accordi incentivati, visti anche gli scarsi risultati, si passa agli obblighi, arrivando alla pagina più vergognosa, nell'estate del '44, con la deportazione di più di mille operai nel campo di concentramento di Mauthausen.

Da 81 anni i cappellani del lavoro di Genova sono un unicum nella Chiesa italiana. Entrano nelle fabbriche in orario di lavoro, celebrano Messa, Si svolgono delicate opere di mediazione tra vertici aziendali, istituzioni e sindacati, offrono assistenza ai lavoratori che lo chiedonono.

«A Genova i primi cappellani erano già attivi negli anni Trenta», racconta monsignore Luigi Molinari, 94 anni, direttore dal 1967 della FondazioneArmo (Assistenza religiosa morale operai), creata nel '51 dal cardinale Giuseppe Siri per rendere autonomi, anche finanziariamente, i cappellani e far sì che non fossero a libro paga delle aziende (come accadeva alla Fiat).

«Siri aveva capito che questo era un punto fondamentale per garantirci autonomia e libertà d'azione», spiega Molinari, «altrove, come in Francia, si era imboccata la strada dei “preti operai”. Esperienza che arriverà anche in Italia, soprattutto dopo il Sessantotto, ma che non è andata a buon fine».

Nel frattempo, la storia è andata avanti: la guerra è passata, con il porto – ieri come oggi motore economico e fattore d'identità della città – che in quel 1944 si è salvato dalla sua totale distruzione ordinata da Hitler grazie all'azione delle forze partigiane e della Curia guidata da Boetto, Genova (e l'Italia) hanno conosciuto la ricostruzione, il boom economico, la crisi industriale, la ripresa, la crisi economica del 2008 e, ora, le nuove guerre.

Anche il mondo del lavoro è radicalmente cambiato tra crisi, chiusure, ristrutturazioni. Lo statalismo («Genova, industria pubblica, operai scontenti», diceva l'avvocato Agnelli) e il capitalismo familiare del passato hanno lasciato spazio, in gran parte, alle multinazionali e ai fondi.

Oggi le decisioni vengono prese a migliaia di chilometri di distanza. E chi decide da lontano, spesso, non conosce Genova, la vede solo come un punto sulla carta geografica, né i lavoratori. «In questo contesto di disintermediazione il nostro ruolo diventa ancora più importante», dice Molinari che condivide questa particolare missione con il fratello Franco, 83 anni, cappellano dal 1967, primo incarico alle Acciaierie dell'ex Italsider con l'altoforno di Cornigliano dove il brigatista Riccardo Dura (uno degli assassini del sindacalista della Cgil Guido Rossa) sognava di gettare vivi i capisquadra e dove sono arrivati ​​in visita due Papi: Giovanni Paolo II nel 1985 e Francesco nel 2017.

«All'epoca c'erano undicimila dipendenti, tra cui 6.500 operai, ora sono circa un migliaio», racconta, «Guido Rossa l'ho conosciuto di persona ed era un sindacalista onesto. Denunciò chi diffondeva i volantini delle Br in fabbrica e questo gli costò la vita. Ho celebrato io il suo funerale e ogni anno partecipo alla commemorazione. In quegli anni il clima era terribile, con le gambizzazioni all'ordine del giorno. I cappellani del lavoro erano mal visti dagli operai e poco ascoltati, rispetto ad oggi, anche dai sindacati. Attualmente le Acciaierie sono in una fase delicata dopo la cessione di ArcelorMittal. L'incertezza sul futuro è devastante per gli operai». Molinari è anche cappellano all'Ansaldo (Energia, Nucleare e STS) e al Distretto delle riparazioni navali.

La crisi delle vocazioni ha inciso anche sui cappellani: Erano una quarantena alla fine degli anni Cinquanta, venticinque a metà anni Ottanta, oggi sono dieci e solo due a tempo pieno, mentre gli altri si dividono tra la parrocchia (più d'una, spesso) e le aziende. Ne seguono circa una sessantina tra pubblico impiego, porto e imprenditoria privata.

Don Massimiliano Morettiparroco a Santa Zita, zona Brignole, e cappellano di Fincantieri, Postel, Arpal e Iren: «Ho iniziato nel 2005», racconta, «dagli anni '70 ad oggi con la chiusura o la riduzione dell'attività di molte fabbriche la città ha perso quasi 400 mila abitanti. In parte ha supplito il turismo, dobbiamo stare attenti che non diventi l'unica espressione della città. Spesso oggi anche chi ha un'occupazione è povero perché il lavoro è precario e sottopagato».

I cappellani sono una cinghia di trasmissione tra la Chiesa e il mondo del lavoro. «Ogni anno, prima di Natale, circa duecento dirigenti vanno a trovare l'arcivescovo Marco Tasca il quale, attraverso questi incontri, riesce ad avere un'idea molto precisa dei problemi e delle difficoltà che ci sono», spiega don Gian Piero Carzino, ingegnere elettrotecnico, cappellano dal 1987 e vicedirettore, con don Moretti, dell'Armo. Segue diverse aziende tra cui Erg, l'acciaieria Wurth ei dipendenti del Comune di Genova che lavorano negli uffici del Matitone: «Fu il sindaco repubblicano Cesare Campart (in carica dal 1985 al '90, ndr) a chiedere al cardinale Siri di inviare un cappellano anche in Municipio che era l'unica “azienda” della città con quasi diecimila impiegati senza un cappellano».

Un aneddoto che spiega molto bene l'attenzione delle istituzioni verso queste figure. Quando nel 2020 il sindaco Marco Bucci ha accolto il nuovo arcivescovo, padre Marco Tasca, gli ha ricordato quanto sia prezioso il servizio dei cappellani per il tessuto sociale e produttivo di Genova.

La storia dei cappellani del lavoro è (anche) un pezzo della storia industriale italiana. Tutti ricordano la battaglia del cardinale Siri negli anni Ottanta quando l'Iri voleva chiudere lo stabilimento di Fincantieri di Sestri Ponente o la mediazione, nel 2011, di monsignor Molinari per conto del cardinale Bagnasco quando Fincantieri aveva deciso di dismettere lo stabilimento di Sestri Ponente e dimezzare quello di Riva Trigoso. «Adesso», spiega Carzino, «ci sono le multinazionali, il settore manifatturiero è calato ei posti di lavoro diminuiti, mentre ci sono molte attività nell'avanguardia nel campo dell'informatica e dell'hi-tech. Noi cappellani non abbiamo mai partecipazione a cortei o scioperi ma la Chiesa genovese ha sempre lottato contro la perdita di occupazione e il trasferimento fuori città o all'estero di sedi direzionali di grandi aziende, facendo sentire la sua voce nei modi ritenuti più opportuni e svolgendo un'opera di mediazione e sensibilizzazione sotto traccia ma non per questo meno efficace».





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