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Se definirsi ‘pro vita’ è diventato ormai un marchio d’infamia



Confesso, ritengo che l'aborto sia un delitto. Non un reato, dato che una legge lo permette, a certe condizioni. Ma in coscienza, moralmente, lo ritengo un delitto. Dico più o meno quel che ripete il Papa, che pure è stracitato ed esaltato, quando pare convergere su quel che aggrada ai più. Mi appello alla libertà di espressione, giustamente tanto invocata come fondamento della democrazia.

Così, se gli scrittori possono insultare il Primo ministro dagli schermi della Tv pubblica, credo di meritarmi la stessa libertà e considerazione. Invece no. Ringrazio questa testata, che mi permette uno spazio di scrittura libero. Inimmaginabile altrove, se non confinandosi in ridotte o schierandosi apertamente con linee di partito. Impensabile altrove, perché nella società dei diritti per tutti e per chiunque a seconda del sentimento del sorgere del sole, certi diritti non sono contemplati. Io non posso dirlo, che l'aborto è un delitto, pena lo scandalo, l'indignazione, la commiserazione.

E poiché un bambino nel ventre materno non può parlare, nessuno può difendere il suo diritto ad esistere. Nessuno per altro dice apertamente quando scatta, il suo diritto ad esistere. Suppongo, data l'estensione delle motivazioni che ammettono l'interruzione della gravidanza, soltanto quando apre gli occhi e pazienza se il suo cuore batte da otto mesi e si muove, sogna, scopre i suoi lineamenti da tempo. Anche questo non si può dire, perché l'esibizione dei feti è un orrore, ci bombardano sui media. Invece nascondere i feti uccisi è normale e non disturbare. Si può rivendicare il diritto d'aborto come una conquista e una liberazione della donna. Ma io non posso dire che una gravidanza, salva in caso di stupro, è sempre una scelta condivisa.

E c'è il modo di evitarla, lo insegnano già sui banchi delle elementari. E riguarda due persone, la madre e il padre, Che dovrebbe avere lo stesso diritto sulla decisione di far vivere o morire un bambino. Non posso neppure dire che l'aborto è un dramma e nessuna donna se aiutata e compresa sceglierebbe di non dare la vita. Perché siamo schietti, per troppe donne l'aborto è una consuetudine e per nulla un evento traumatico. E perché a chi potrebbe e vorrebbe aiutare le donne in attesa è impedito di incontrarle. Ora, la legge 194 è datata secondo tutte le attuali conoscenze scientifiche.

Ma non la si tocca, è una legge dello Stato, e poiché secondo un'insana idea di progresso prendiamo esempio dai Paesi che riteniamo più progrediti, le sue correzioni sarebbero solo peggiorative. Ma la sua espressione corretta è «norme per la tutela sociale della maternità». Perché le associazioni ei volontari che potrebbero svolgere questo compito previsto dalla legge non dovrebbero entrare nei consultori? Definirsi “pro vita” è diventato un marchio d'infamia, un'onta, uno schiaffo sovversivo alla Repubblica e spunta subito il sospetto di “fascismo”, buono per additare il nemico in qualunque ambito ci si azzardi a contestare il pensiero corrente. Si tratta davvero di pensiero? Perché, pensando, forse quell'essere che si dondola nel liquido amniotico non è solo un grumo di cellule.





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