Istruzione

“Per insegnare Pascoli canto le sue poesie come una musica Rap. Così insegno nei contesti svantaggiati”. INTERVISTA a Maya Coianiz – Orizzonte Scuola Notizie


“Fino a quel momento non avevo ricevuto alcuna formazione come docente e questo è un problema. Un problema che non è solo mio. Il problema dei supplenti è che ci si sente soli. Teach for Italy mi ha aiutata ad avere un network su cui poter contare. Mi sento più sicura come docente di fare le cose giuste”.

La professoressa Maya insegna da alcuni anni. Ha scelto di insegnare in contesti svantaggiati, come gli istituti professionali e in carcere, ma non solo. Qui il metodo tradizionale di insegnamento basato sulla classica lezione frontale si rivela spesso fallimentare, l’attenzione degli alunni, più portati per il lavoro che non per lo studio, svanisce dopo dieci minuti. A un certo punto della propria vita professionale la docente ha deciso di avvicinarsi all’Organizzazione no profit Teach for Italy, di cui ci siamo occupati nei giorni scorsi con un’intervista, e che le ha offerto una nuova e più efficace visione dell’insegnamento nei contesti difficili. “E’ ovvio – spiega oggi Maya – che gli studenti al liceo studino tutto quel che gli proponi, hanno più passione e maggior predisposizione per lo studio”. Al professionale le cose cambiano: “Teach for Italy mi ha insegnato che lo studente è al centro e che non è importante quello che piace a me, ad esempio Leopardi, o quello che io penso. E’ più importante quello che è ritenuto interessante per il mio studente. C’era un ragazzo al professionale che era tanto dotato che poteva essere al liceo. Un giorno gli chiesi: perché se qui e non al liceo? Mi rispose: Prof, a me piace lavorare al tornio e questa è la scuola giusta per me. A quel punto ho capito che io stavo proiettando le mie aspettative sullo studente. Invece avrei dovuto ascoltare quel che lo studente voleva per se stesso e per le proprie aspettative”.

In Italia “il contesto in cui nasci e cresci decide il successo scolastico e professionale. Noi invece vorremmo fare qualcosa per garantire a tutti le stesse opportunità a prescindere dal contesto di partenza”. Così ci aveva detto Amir Mohamed nella precedente intervista dedicata all’organizzazione no profit “Teach for Italy”. Troppo spesso, aggiunge l’organizzazione di cui fanno parte Amir e Maya, “il quartiere, la famiglia e le circostanze socio-economiche da cui provieni determinano il tuo livello d’istruzione e le tue future opportunità di vita. Purtroppo, anche in Italia questa è una realtà per un numero sempre maggiore di giovani”. Teach For Italy fa parte a propria volta dell’organizzazione internazionale Teach for all, che lavora per contrastare le disuguaglianze educative e rafforzare la scuola pubblica nei contesti più difficili, portando giovani talenti e nuove energie nelle scuole più svantaggiate. Nel lungo periodo, spiegano gli organizzatori, opera per costruire un movimento dedicato al contrasto delle crescenti disuguaglianze educative in Italia: “Contribuisce a costruire un Paese in cui il luogo in cui vivi non sia il solo parametro che determina il tuo livello di istruzione e le tue opportunità future”.

Secondo i dati elaborati rispettivamente da World Economic Forum 2020, INVALSI 2023 ed EUROSTAT, 2021, e rilanciati da Teach for Italy, in Italia solo il 6 per cento dei bambini i cui genitori non hanno terminato le scuole superiori otterrà la laurea. Il 65 per cento resterà allo stesso livello di istruzione. Un giovane ogni 8 non finisce le scuole superiori, una quota tra le più alte in Europa. La quota di giovani che non finisce le scuole superiori in Italia è tra le più alte in Europa (12,5 per cento). Nelle regioni del Sud la media si alza al 17 per cento, con un picco del 21,1 per cento in Sicilia. Degli studenti che hanno affrontato la maturità nel 2023, 34.850 sono usciti dal nostro sistema formativo senza aver raggiunto il livello minimo di competenze in italiano, matematica e inglese. I tassi più elevati sono in Campania e Sardegna, sopra il 15 per cento, seguiti da Sicilia, Calabria e Basilicata. A questi dati si aggiungono 3 milioni di NEET (Not [engaged] in Education, Employment or Training), ovvero il 23 per cento dei giovani tra i 15 e i 29 anni. La quota è 10 punti percentuali superiore a quella europea (13,1 per cento). La media si alza nel Sud e nelle Isole, con percentuali di NEET che toccano punte del 40 per cento in alcune regioni.

“Crescenti disuguaglianze socio-economiche, caos amministrativo, e mancanza di una visione per il futuro – prosegue l’analisi di Teach for Italy – fanno sì che la scuola pubblica non riesca più ad essere un efficace ascensore sociale, specialmente nelle comunità più svantaggiate del Paese.

Emorragia di talenti: la scuola italiana soffre uno dei livelli più alti di abbandono scolastico in Europa, con un giovane ogni cinque che non finisce le scuole superiori. La bassa crescita economica e l’alta disoccupazione fa sì che l’Italia abbia anche uno dei tassi più alti di giovani che una volta lasciata la scuola non studiano, non lavorano e non si formano (NEET). Questo enorme spreco di talenti ed energie che dovrebbero contribuire alla crescita economica e culturale del nostro Paese, rafforza un ciclo di marginalità sociale e povertà che la scuola stessa dovrebbe contrastare.

Povertà educativa: in Italia un quindicenne su cinque non raggiunge le competenze minime in matematica, uno su quattro non le raggiunge in italiano. I ragazzi che vivono in contesti di disagio e povertà hanno 5 volte di più il rischio di non raggiungere queste competenze”.

Gli Alumni di Teach for Italy lavorano molto con gli istituti professionali e con i Cfp, i centri di formazione professionale, che sono considerati l’ultima rete prima dell’abbandono scolastico. I ragazzi e le ragazze non ce l’hanno fatta nelle scuole tecnico professionali e vanno nei centri di formazione professionale. L’utenza qui è particolarmente svantaggiata, ma non necessariamente meno dotata rispetto a quella dei licei. Sono semplicemente studenti che provengono da contesti socio culturali marginalizzati che li portano all’insuccesso scolastico. I centri di formazione professionale lavorano benissimo ed è un peccato che vengano considerati come l’ultima spiaggia.

Come funziona nella pratica? La fellowship di Teach For Italy prevede un impegno di due anni a tempo pieno come insegnante di scuola primaria o secondaria preceduto da un corso di formazione intensivo prima dell’ingresso in classe. Il programma include un percorso di formazione e supporto personale e professionale volto a sviluppare le capacità di impatto in classe, a scuola e nel sistema educativo italiano. Al termine dei due anni di programma, i Fellow entrano nella Comunità di Alumni Teach For Italy. “La nostra visione per gli Alumni – spiegano i responsabili – li vede come futuri leader collettivi e facilitatori del cambiamento in tutti gli ambiti di impatto maggiormente strategici dell’ecosistema educativo italiano. L’obiettivo è che rimangano connessi tra di loro, con il territorio e con la missione di Teach For Italy e che possano formare reti con i vari attori necessari per facilitare iniziative intersettoriali orientate al cambiamento della scuola. In qualsiasi settore i nostri Alumni scelgano di operare, come insegnanti, dirigenti scolastici, rappresentanti istituzionali, policy makers, imprenditori, innovatori sociali o ricercatori, noi crediamo che possano contribuire a praticare, studiare e promuovere approcci in ambito educativo inclusivi e a favorire scelte politiche incentrate sull’equità educativa”. Gli Alumni di Teach for Italy operano anche nelle sezioni scolastiche istituite nelle carceri, come nel caso di Maya.

Maya Coyaniz ha 29 anni, è di San Giorgio di Nogaro in provincia di Udine. E’ laureata in Filologia, Letterature e Storia dell’Antichità ed è iscritta nelle Gps. Insegna da alcuni anni ma la sua vita professionale è cambiata quando ha scoperto, con Teach for Italy, che un altro modo di fare didattica c’è. Che esiste e si può praticare un altro tipo di didattica capace di rimuovere le diseguaglianze laddove le diseguaglianze di partenza fanno davvero la differenza. Negli istituti professionali e nel carcere ha potuto sperimentare come il successo formativo di tanti alunni socialmente e culturalmente svantaggiati – e altrimenti destinati alla dispersione da ogni punto di vista – è a portata di mano. Basta cambiare approccio. “Io sono laureata in lettere classiche all’Università di Padova – spiega Maya – e al momento sono un’insegnante iscritta in GPS. Ora insegno ma dopo la laurea ero stata stata lettrice all’università del Kent a Canterbury, in Inghilterra. Quella fu una prima esperienza, poi nel 2020 è arrivato il Covid e con la riapertura delle graduatorie provinciali mi sono inserita nelle graduatorie. Ho fatto una prima supplenza alle superiori, ho avuto esperienze diverse, ho insegnato al liceo scientifico, al liceo delle scienze umane all’Ipsia e anche in Carcere a Busto Arsizio, in corso triennale IEFP

Professoressa Maya Coyaniz, quando ha deciso di rivolgersi a Teach for Italy?

“A un certo punto, era il maggio 2021, mentre ero al primo anno di supplenze, ho letto per caso una pubblicità che parlava di Teach for Italy, un’organizzazione che al momento non conoscevo. Mi sono informata e l’ho trovata molto interessante per quel che offriva”.

Che cosa l’ha colpita?

“Fino a quel momento non avevo ricevuto alcuna formazione come docente e questo è un problema. Un problema che non è solo mio. E’ piuttosto diffuso tra i colleghi insegnanti. Mi ha dunque colpito il fatto che avrei potuto cogliere questa opportunità interessante di formazione che sarebbe durata due anni. Mi è piaciuta l’idea di avere un tutor che mi avrebbe seguita e che mi avrebbe osservata durante le lezioni dandomi dei consigli. Ho fatto subito domanda, è seguito un processo di selezione, infine ho potuto frequentare la scuola estiva, che in quell’occasione è stata frequentata online a causa del Covid, mentre il corso l’ho fatto a Torino, tutto spesato dall’organizzazione. Finita l’estate ognuno di noi aspettava la supplenza, io ho indicato le scuole più marginalizzate secondo un indice di marginalizzazione stimato con criteri redatti da Teach for Italy. Ho indicato anche il carcere”.

Dove l’hanno chiamata a insegnare?

“Mi hanno chiamata al secondo giro. Ho insegnato al liceo scientifico e scienze umane Albert Einstein di Cervignano del Friuli”.

Il dirigente scolastico sapeva dell’esistenza di Teach for Italy e delle proposte didattiche ed educative di questa organizzazione?

“Ho dovuto parlare con la dirigente scolastica, ho presentato il programma, ho avuto la sua autorizzazione. Lei non ci conosceva ma è stata molto interessata e disponibile. A quel punto ho potuto dare via al progetto e per due volte è venuto il mio tutor per vedere le mie lezioni. Ero emozionata, e pure i ragazzi erano emozionati. Si sono sentiti importanti”.

Ha notato subito su di sé e nei confronti degli allievi i benefici tratti dalla differenza di approccio didattico?

“Ho notato chiaramente la novità del metodo di Teach for Italy. Prima mi imponevo con un metodo molto severo, fatto anche di note disciplinari di fronte a comportamenti scorretti. Poi ho avuto un confronto molto utile con il mio tutor e con i fellows, e così ho cambiato approccio con i quindicenni. Ho lavorato molto sul rapporto di fiducia e su quello umano. E’ stata dura, all’inizio, ma poi si è creata un buona relazione, la formazione mi ha aiutata e alla fine l’attività didattica è risultata molto efficace”.

L’anno dopo ha cambiato scuola. E ha usato pure la musica e le canzoni per insegnare la poesia in un istituto professionale. E così?

“Il secondo anno ho insegnato all’IIS Linussio di Codroipo, un istituto che ha tanti indirizzi, dal liceo al tecnico al professionale. Io avevo una cattedra con alcune ore allo scientifico, indirizzo scienze applicate, altre ore all’Ipsia, indirizzo manutentori. Qui ho seguito il percorso di Teach for Italy ed è in questo contesto che ho usato la musica per insegnare poesia. In seconda, per italiano, occorre trattare la poesia di Pascoli e io come approccio al testo poetico ho usato il testo cantato di musica rap”.

Perché?

“Proprio perché durante la formazione ci hanno insegnato che è fondamentale che ciò che noi insegniamo sia rilevante per lo studente e che allo studente risulti interessante. E quindi, secondo me, specie in contesti difficili, è importante saper declinare il nucleo di quello che dobbiamo insegnare secondo gli interessi e le attitudini di chi ci sta davanti. E’ ovvio che al liceo studiano tutto quel che gli proponi, hanno più passione e maggior predisposizione per lo studio. Al professionale invece sono più predisposti per il mondo del lavoro. E dunque sono partita da questo principio e ho visto che la musica e il rap funzionavano”.

Non solo rap…

“Non solo rap, esatto. Ho utilizzato anche altra musica e altri cantanti. Penso a Fabrizio De André. In particolare una canzone di De Andrè, La ballata degli impiccati, ci ha offerto uno spunto molto interessante, che loro hanno collegato con la pena di morte, di cui abbiamo parlato a lezione”.

De Andrè fa un po’ da ponte con il suo successivo incarico in carcere

“Di Fabrizio De Andrè in carcere ho analizzato la canzone Sally, quando dice dite a mio madre che non tornerò. L’ho trovata molto pertinente per la situazione che vedevo vivere in carcere, con i miei studenti. Ricordo un ragazzo, mio alunno tunisino, che un giorno si è messo a piangere e alla fine in un momento molto intenso ha urlato Dite a mia madre che tornerò. Era commosso e questa esperienza lo ha spinto a partecipare a un concorso letterario dove ha vinto un premio. Alla fine ha scritto una canzone rap per la mamma”.

Lo studente al centro

“E’ così. Teach for Italy mi ha insegnato che lo studente è al centro e che non è importante quello che piace a me, ad esempio Leopardi, o quello che io penso. E’ più importante quello che è ritenuto interessante per mio studente. C’era un ragazzo al professionale che era tanto dotato che poteva essere al liceo. Un giorno gli chiesi: perché se qui e non al liceo? Mi rispose: Prof, a me piace lavorare al tornio e questa è la scuola giusta per me. A quel punto ho capito che io stavo proiettando le mie aspettative sullo studente”

E invece?

“Invece avrei dovuto ascoltare quel che lo studente voleva per se stesso e per le proprie aspettative”.

Tutto questo lei lo ha capito grazie alla formazione?

“L’ho capito soprattutto grazie alla formazione, perché c’è stata tantissima enfasi, proprio durante la formazione, sul concetto dello studente che crea il proprio percorso e sul ruolo attivo del medesimo. Fino a quel momento stavo sbagliando. Un’altra cosa che mi ha insegnato Teach for Italy è stata la cura verso gli studenti più bisognosi e a rischio dispersione. In particolare c’era un ragazzo che aveva comportamenti oppositivi e in quel caso ciò che mi ha aiutato è stata l’idea di non prenderlo di petto. Certo, occorre essere severi, ma poi è stato importante parlare con lui, anche con l’aiuto della psicologa della scuola, per cercare di capire da dove venisse il disagio. E’ chiaro che è tutto lavoro in più, lavoro non pagato, e che però ho svolto perché mi sentivo di farlo e perché è giusto aiutare questi ragazzi che hanno spesso difficoltà gravi, sovente legati a un background migratori, e che fanno anche fatica in lingua italiana”.

Anche gli alunni italiani sono in difficoltà

“Eccome!”

Torniamo in carcere

“In carcere mi sono resa conto di una cosa in più. L’istruzione in carcere è una grandissima chiave di riscatto perché molti di loro non hanno mai avuto l’opportunità di frequentare le scuole e sono finiti in giri strani. Il lavoro in carcere mi ha fatto capire quale sia il vero ruolo dell’istruzione e anzi mi ha fatto capire quanto sia importante lavorare in questi contesti. Anzi, è importante essere formati per lavorare in questi contesti e quindi Teach for Italy casca a fagiolo perché aiuta i docenti ad avere quella formazione che serve per lavorare in modo efficace in tali contesti”.

La scuola, da sola, non riesce in questo compito?

“Non so se con l’anno di prova e con i nuovi percorsi di abilitazione sarà diverso. Io lo spero, ma non sono in grado di saperlo, per ora. Al primo anno di precariato avevo fatto un corso di coding e un altro sulla didattica dell’Olocausto: tutto molto bello, ma era una cosa settoriale. Tuttavia non avevo avuto una formazione a tutto tondo sul piano della metodologia. E invece questa formazione mi ha dato delle basi di pedagogia speciale e generale e tantissima metodologia didattica”.

Sono comunque cose che negli ultimi anni si studiano per i concorsi

“Alcune cose si fanno, è vero, per i concorsi. La novità per Teach for Italy è intanto il tutor che viene in classe. Per me il punto di forza è il network, il lavorare con gente motivata con i miei stessi obiettivi con cui confrontarmi costantemente e lo staff, sempre molto disponibile, specie il tutor: sapevo di avere qualcuno su cui contare in qualsiasi momento. Nella summer school avevamo sperimentato una pratica didattica concreta con dei ragazzini che frequentavano la scuola estiva: andavamo a fare delle attività e questo mi ha permesso di mettere in pratica quello che avevo imparato sul piano teorico. Durante la seconda estate si fa un tirocinio estivo. Qui ci sono tante opportunità, sia di lavorare con organizzazioni no profit in ambito educativo, sia di fare visite a organizzazioni come la nostra in altri paesi, come Teach for India. Io personalmente ho collaborato con un’organizzazione che si chiama Parole ostili, specializzata in comunicazione non violenta e ho progettato attività didattiche sulle malattie rare per educazione civica: ho lavorato da remoto tutta l’estate”.

Serve tanto impegno

“L’impegno è tanto, dura sei settimane e quello che fai è tutto spesato. Tre volte all’anno si fanno dei ritrovi in presenza in un week end, lo abbiamo fatto a Torino, a Napoli, a Palermo. Nel secondo anno in classe in più c’è un’attività in cui devi attuare un progetto nella tua scuola. Io per esempio ho fondato il giornalino del carcere che si chiamava Belli dentro: gli studenti scrivevano gli articoli e lettere. E poi a seconda della scuola ognuno faceva qualcosa di diverso. Inoltre c’è stata una serie di incontri di orientamento professionale per noi: sono venuti a parlare dei dirigenti scolastici e altre figure per verificare se volessimo fare i DS, o i coach o entrare in enti del Terzo settore, o diventare formatori di docenti. Tutto questo perché l’idea di Teach for Italy è che la missione di rimuovere le diseguaglianze nella scuola pubblica diventi parte, in un modo o nell’altro, del nostro futuro professionale. Posso essere un docente e posso avere un impatto sulla mia classe ma la domanda è: come faccio ad avere un impatto ancora maggiore? Posso diventare formatore dei docenti o anche un dirigente scolastico che ha questa nuova mentalità”.

Lei verso quale direzione si sente orientata?

“Una possibilità sarebbe la formazione dei docenti, questo mi piacerebbe molto, oppure lavorare in carcere. Ma il sogno, è diventare membro del gabinetto presso il Ministero. Ma è solo un sogno”

La prima cosa che vorrebbe fare, una volta entrata in uno staff, al Ministero?

“Questa è una domanda difficile: ci sono tante cose che vorrei fare. Il sogno è quello di trovare un sistema di reclutamento e di formazione che sia efficace”.

La formazione non lo è?

“Per la mia esperienza, la formazione, dallo Stato io non l’ho avuta. Poi magari con l’anno di prova la mia opinione cambierà. Sicuramente è importante il bisogno di lavorare in maniera attiva in questi contesti che vorrei non fossero dimenticati. Al professionale e in carcere la presenza di immigrati stranieri è maggiore. Quindi anche in un’ottica di integrazione è importante lavorare in maniera attenta in questi contesti. Sono ambienti sfidanti a prescindere ma avendo gli strumenti adeguati si può lavorare in maniere efficace. Ho conosciuto tanti colleghi dotati di buona volontà ma quel che fa la differenza è avere gli strumenti che ti permettono di raggiungere il risultato che vuoi”.

Quali riscontri positivi ha avuto finora con gli studenti?

“Ovviamente occorre partire dal presupposto che esiste una componente individuale. Ci sono studenti più portati e altri meno, altri ancora più svogliati. Però ho notato che cercando ad esempio il modulo sulla poesia con il rap, e con De Andrè, questa cosa li ha interessati e li ha aiutati a sedimentare i concetti più importanti: per esempio cos’è una rima, cos’è una strofa. Se lo avessi spiegato in maniera teorica e con dei testi che a loro non piacevano avrebbero fatto più fatica. Anche in storia antica, una materia che a loro non interessava, io ho lavorato sempre con le metodologie didattiche attive, per esempio con il peer tutoring, con il lavoro a coppie, con il supporto digitale, con i quiz di Kaoot. Ho fatto di tutto per rendere le lezioni interessanti e alla fine i ragazzini mi seguivano e quindi ho avuto un riscontro positivo sugli apprendimenti. E questo perché avevo provato a fare la classica lezione frontale e dopo dieci minuti l’attenzione svaniva e dunque mi sono resa conto che così non potevo lavorare”.

Quanto è stato importante il rapporto con i colleghi che insegnano nella scuola dove ci si inserisce con questo nuovo approccio?

“E’ molto importante aprirsi con i colleghi. Se vuoi avere un impatto devi collaborare con tutti. Io ho presentato il metodo ai colleghi e loro piano piano si sono dimostrati aperti, curiosi. Secondo me sarebbe bello andare ad assistere alle lezioni dei colleghi ma è una cosa che non si fa in genere e che a me invece piacerebbe. Vorrei imparare e magari prendere spunti o che loro venissero da me e mi spiegassero dove sbaglio. E tutto questo, il mettersi in gioco, il non sentirsi mai arrivati e sapere che si può sbagliare, noi come gli studenti, è una cosa che mi ha insegnato Teach for Italy”.

Secondo lei si può ottenere molto di più negli ambienti sfidanti?

“Sì. E si deve. E’ chiaro, bisogna crederci, occorre mettere tanta passione, tanto impegno, ma è necessario avere gli strumenti adeguati, cioè la formazione giusta”.

Consiglia questa esperienza agli insegnanti italiani?

“Certo. Per me è stata una esperienza molto importante, che ha cambiato il modo in cui sto in classe, ha cambiato anche il modo con cui vedo il lavoro degli insegnanti: capisco ora l’importanza di lavorare nei cotesti più svantaggiati e anche l’importanza di avere un impatto più grande possibile sul sistema educativo italiano”

Che cosa risponde a chi pensa alle eventuali, ipotetiche difficoltà pratiche nell’avvicinarsi a Teach for Italy?

“Bisogna tenere presente che il programma è impegnativo. Ma dura solo due anni e quel dà quella formazione ripaga molto tutti gli sforzi. Io oggi sono molto più serena. Il problema dei supplenti è che ci si sente soli. Teach for Italy mi ha aitata ad avere un network su cui poter contare. Mi sento più sicura come docente di fare le cose giuste. Lo consiglio vivamente e certamente lo rifarei”.



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