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Sicurezza, una domanda legittima che chiede risposte complesse



Si fa presto a dire sicurezza. Si fa presto anche a prometterla a suon di carcere e di espulsioni, nel caso in cui a minare la tranquillità sociale con i comportamenti sia uno straniero irregolare. Si fa presto anche ad applaudire un siffatto programma. Si fa presto perché sembra facile, poi un giorno la realtà si incarica di dimostrare a costi umani e sociali elevati che invece è tutto molto più complicato di così e che si tratta invece di governare un'enorme complessità, di fronte alla quale le risposte semplici mostrano la corda, come la mostra il reciproco rinfacciarsi di “buonismo” e “derive securitarie” tra forze politiche d'opposto segno, e lo scaricabarile tra governo centrale ed enti locali: sono polemiche che lasciano il tempo che trovano, perché anch'esse rientrano nel novero delle semplificazioni a buon mercato che a memoria storica non hanno mai risolto alcuno problema.

La realtà che oggi sbatte in faccia a tutti la complessità è il caso dell'esagitato che ha accoltellato il vicecommissario alla stazione di Lambrate di Milano. Una storia a suo modo esemplare di un irregolare, che mai ha avuto un permesso di soggiorno, che ha visitato più volte gli istituti di pena italiani, compiendo una discreta gamma di reati da strada, e dando alle autorità una ventina di identità diversa. Identificato per la prima volta il 18 dicembre del 2002, raggiunto da un decreto di espulsione la prima volta nel 2004 e poi di nuovo nel 2012 da parte del prefetto di Napoli, è stato espulso di nuovo nel 2023 dal prefetto di Avellino.

Le norme attuali hanno reso formalmente residua l'espulsione a mezzo di intimazione a lasciare il Paese entro il termine previsto, a vantaggio dell'accompagnamento alla frontiera da parte della forza pubblica ma i mutamenti legislativi restrittivi non hanno sortito con ogni evidenza l'effetto promesso: la mancanza di posto in un Cpr, ha fatto scattare l'ordine di lasciare il paese in 7 giorni. Disattèso.

Un singolo caso che però rispecchia una realtà fotografata dal Dossier immigrazione Idos 2023 nella cui sintesi si legge tra le altre cose della: «Scarsa efficacia delle misure di allontanamento. Nel 2022 solo l'11,7% dei migranti arrivati ​​da un provvedimento di espulsione (in tutto 36.770) e il 49,1% di quelli transitati nei Cpr (in tutto 6.383) sono stati effettivamente rimpatriati, a fronte di una presenza straniera irregolare che in Italia è stabilmente stimata, nonostante ben 8 regolarizzazioni in 37 anni di legiferazione, in oltre 500mila immigrati».

Le ragioni dell'inefficacia sono molteplici, a cominciare dalle risorse, umane ed economiche, che servono per l'esecuzione forzata di un'espulsione e in particolare di un rimpatrio, cosa che richiede, però anche a monte innanzitutto una Patria che riconosce l'impulso come cittadino. A fronte di accordi bilaterali con lo Stato di riferimento, che spesso non ci sono, individuare quella patria, d'altra parte, non è un esercizio semplice e spesso si traduce in richieste destinate a cadere nel vuoto. Pare che sia andata così con l'accoltellatore di Milano. Nessuna risposta dal Marocco negli anni precedenti, niente posto nel Cpr, luogo deputato all'attesa degli accertamenti l'ultima volta.

Ci si scontra con la difficoltà di eseguire nella pratica norme che, mettono a tacere accontentandolo il comune sentire, ma sortiscono l'effetto di gride manzoniane: minacciose quanto inefficaci. Ci si scontra anche con l'evidenza del fatto che il carcere, anche vissuto diverse volte, non ha di per sé effetti salvifici definitivi: può rassicurare psicologicamente la popolazione che sta fuori, fin tanto che una vita sbandata resta reclusa, ma è una “sicurezza” più percepita che reale e comunque a breve scadenza: perché dalle carceri, prima o poi, si esce a meno che non si sia Totò Riina o giù di lì, bene che vada essendo rimasti quelli di prima, specie nel degrado del sovraffollamento attuale che rischia di vanificare i propositi di rieducazione richiesti dalla Costituzione: i dati parlano 61.297 detenuti al 30 aprile 2024, + 1.131 da inizio anno , a fronte di una capienza di 51.275 posti. E al di là delle promesse più o meno elettorali, comunque la si pensi in termini di garanzie, «buttare la chiave» indipendentemente dal reato non è una soluzione realistica: neanche per chi si sentisse rassicurato da un Paese dalle leggi draconiane. Anche volendo, non si potrebbe fare. La democrazia pluralista pone dei limiti: la Costituzione e le norme europee impediscono simili soluzioni. Per fortuna di tutti noi, perché gli Stati così non sono quelli in cui si viva serenamente.

È ovviamente un esempio paradossale, per dire che la sicurezza è una complessità sociale che non si esaurisce nella realtà di sbarre che si apre e si chiudono e la cui gestione non può essere delegata alla magistratura e alle forze dell'ordine in assenza di una rete che faccia da paracadute alle smagliature del tessuto sociale a monte. Non la si risolve neanche negando i problemi o minimizzandone la portata, lasciando che si autoalimentino dove ci sono: dove non c'è legge vince la legge del branco e sono i più fragili a rimetterci.

La sicurezza è una questione complicata che ha a che fare con una molteplicità di fattori, a fronte della quale serve una molteplicità di strategie, che guardino oltreché alla repressione (inevitabile, ma che comunque arriva dopo un danno fatto) alla prevenzione (indispensabile, ma che non può esaurirsi nel dubbio effetto deterrente di una norma penale).

Serve una, certo non facile, visione di lungo periodo, che chiama in causa l'idea di società che si vuole disegnare, nella quale si vuole vivere, nella quale si deve necessariamente convivere: se non altro perché l'esperienza del mondo insegna che le società che vivono a ghetti e compartimenti sono le meno sicure. Se non si governa il degrado, se non si cercano strategie al disagio sociale e materiale, non è difficile immaginare che si generino, nelle periferie urbane ma non solo, bombe sociali pronte a tradursi in insicurezza nel breve o nel lungo periodo.

È normale che sul tema ci siano punti di vista diversi, che si scontrino visioni politiche diverse, ma per costruire futuro occorre deporre le armi ideologiche, le letture stereotipate o ingenue, per provare a cercare soluzioni a scadenza un po' più lunga della prossima tornata elettorale per le sfide della società plurale nella quale viviamo, per arrivare a una sintesi vera, che il bene comune della sicurezza come parte della qualità della vita di tutti, lo cerchi per davvero, con una mediazione intelligente per il bene di tutti, con un approccio coordinato tra competenze dello Stato centrale ed enti locali e tra figure e competenze diverse, mettendo in campo risorse umane nel senso più ampio e materiali in una visione prospettica d'insieme. Ne va del domani, sicuramente incerto, ma non quanto sarebbe certo l'effetto boomerang se si lasciasse ogni disagio e ogni degrado non governato al suo destino. Milano, per esempio, è uno dei luoghi che si confronta con l'accoglienza di un numero elevato di minori non accompagnati: scommettere sulla loro integrazione – sfida di respiro nazionale se non addirittura europeo –, cercando politiche risorse e competenze alla bisogna, può essere molto impegnativo e non certo nel risultato. Ma l'alternativa è che scommettendo sulla disintegrazione si finisca a raccoglierne, invece, i frutti, pressoché certi, in pochi anni. Non è un buon affare.





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