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Julio Velasco: ‘Voglio un’Italia di donne autonome e autorevoli. Credo in loro e lo sanno’



Se non è tabula rasa poco ci manca. Le ragazze dell’Italia di oggi non erano nate quando Julio Velasco era, malgré lui, un personaggio che tutti volevano e tutti cercavano come il protagonista del Barbiere di Siviglia: l’allenatore-filosofo che aveva plasmato la Nazionale di pallavolo che sarebbe passata alla storia come la squadra del millennio, capace di vincere tutto tranne l’oro olimpico a una palla dalla fine. Dal 14 maggio, alle 19 contro la Polonia, è impegnato con l’Italia delle ragazze nella Volley Nations League per la qualificazione a Parigi 2024, la prima uscita ufficiale dopo due amichevoli vinte.

Velasco ha fatto pace con quel personaggio ingombrante, s’è un po’ fatto da parte a 28 anni dalla finale di Atlanta?

«Un po’ sì, però continua ad avere vita propria, è meno ingombrante di allora certo, ma continuano ad attribuirmi frasi anche belle che io non ho mai detto. Me dicono tu hai detto tu hai fatto, non me riconosco, ma qualcosa è cambiato, sì: un po’ mi sono abituato, un po’è tutto più tranquillo».

Aveva annunciato il ritiro, che cosa l’ha convinta a ripartire?

«La possibilità e la curiosità di fare una cosa nuova che non avevo fatto nella pallavolo, come allenare le donne, esperienza che avevo avuto solo per un brevissimo periodo. Dal punto di vista tecnico il lavoro è simile, ma da altri punti di vista è un mondo diverso dai maschi: io sono padre di due figlie, sono cresciuto con una madre e una zia, mio padre quasi non l’ho conosciuto, è morto che ero piccolissimo. È un mondo che conosco a livello personale, ma a livello professionale è un’altra cosa».

Che squadra ha trovato? Dicono che sia piena di talento ma un po’ tormentata nelle relazioni.

«Siamo ancora all’inizio, devo ancora capire delle cose, alcune giocatrici sono state impegnate con i club fino all’ultimo: gruppi con problemi ce ne sono sempre stati, ma non so dire se sia questo il caso: i giovani hanno una grande capacità di andare avanti di cambiare, gestire le persone che ci sono dietro le giocatrici è parte della sfida per me. L’aspetto del gioco è il più facile».

Al tempo dei “fenomeni”, queste ragazze non erano nate: chi è Velasco per loro?

«Non lo so bene, perché non so quanto sanno di me e io, certo, non vado a raccontare. Non so nemmeno se mi vedono come un nonno o come un padre. Però per me è molto interessante. Vedo che riesco a comunicare con loro, anche se sono di un’altra epoca».

Come succede agli insegnanti con le classi: le squadre hanno sempre la stessa età, gli allenatori no. Viene naturale adattarsi o si impara?

«Insegnare è naturale, sul modo di porsi bisogna un po’ lavorarci. Io dico sempre che non dubbiamo giudicare i giovani, tanto meno giudicarli mettendoci d’esempio. Questa è una cosa terribile per i giovani: dire “ai miei tempi noi avevamo ideali e noi no”, è semplicemente dire, alla fine se andiamo all’osso, “io sono meglio di voi”, e questo ci allontana. Non mi costa sforzo non farlo perché non lo penso. Ai giovani di adesso tocca vivere in questo mondo come a me, a vent’anni, è toccato quello, ma io non vedo queste grandissime differenze. La differenza grande è l’epoca in cui viviamo, ma i giovani hanno più o meno gli stessi problemi. Diciamo: “Non comunicano tra loro, si mandano messaggi”. Io stavo il pomeriggio con un mio amico e poi gli telefonavo perché mi ero scordato di dirgli una cosa e mia madre non capiva e si lamentava perché le facevo spendere i soldi del telefono. Non è vero che non parlano, che non comunicano: lo fanno in un altro modo».

Che idea si è fatto?

«Dal punto pallavolistico ho un’idea della squadra, sono molto fiducioso. Sono convinto che non ci siano così grandi problemi: in Nazionale c’è un grosso vantaggio puoi scegliere i tuoi giocatori non è come nel club dove sei legato ai contratti. Io credo che loro si adatteranno al modo di vedere le cose, perché la motivazione di un’Olimpiade è assoluta e tante volte a far funzionare i gruppi umani non sono solo gli alti valori che pure sempre ci sono, agisce anche la necessità: dobbiamo stare insieme, perché conviene. Poi è chiaro che ci devono essere delle norme: le religioni sono state per secoli un modo per ordinare le comunità, nell’ultimo secolo ci sono tanti concetti che non sono religiosi ma che hanno aiutato a ordinare la società, ma sempre incide la motivazione: conviene che facciamo così perché così stiamo meglio, quando non funziona così ci sono guerre civili. Io credo che nei piccoli gruppi la motivazione è la colonna portante della unità, se non c’è ognuno comincia a vedere solo il proprio interesse individuale. È lì ci si disgrega».

Parliamo delle sue motivazioni verso Parigi?

«Non è una motivazione speciale, molti credono che siccome non ho vinto l’Olimpiade io la voglia vincere a tutti i costi. Ma non è così. Vincere un’Olimpiade, un Mondiale, per uno che fa il mio lavoro è la cosa migliore, ma io non so se l’Olimpiade sia più importante di un Mondiale. Lo è per gli sport che non hanno Mondiale. C’è molto mito, un grande apparato attorno all’evento, ma molti dei valori che si suppone che lo sport olimpico debba avere non sempre ci sono: molti sportivi dei Paesi poveri, tanto per dirne uno, gareggiano per i pPaesi ricchi».

I suoi ex giocatori sono ancora tutti intorno: De Giorgi è il Ct dell’Italia maschile, Giani della Francia, Bernardi ha fatto una grande carriera nei club e ora è il suo vice…

«Gardini lavora in un’azienda a Milano. Smettere è difficile, più sei in alto più difficile è: eri il migliore del mondo e il giorno dopo non lo sei più e ti ritrovi uno come tanti. Sono felice che loro abbiano potuto trovare un’alternativa: sposso i grandi atleti vivono nel passato, restano ex giocatori, loro invece stanno facendo cose nuove, e io, che voglio molto bene a tutti loro, sono contento se si realizzano».

I ragazzi sono gli stessi in tutto il mondo e le situazioni in cui vivono li cambia?

«Uno dei motivi che sono andato ad allenare in Iran è stato per scoprire questo. È un po’ come con la letteratura, se uno legge un buon romanzo di qualunque cultura trova i temi dell’essere umano declinati in una cultura o in un’altra, in un luogo geografico o in un altro, ma restano i temi profondi dell’umano. Io credo che con le persone sia la stessa cosa e con i giovani in particolare: la Rete da una parte dà loro una visione molto più universale rispetto alla nostra, dall’altra però noto che non è andata come si credeva ai miei tempi, non si sono internazionalizzati del tutto: se penso alla musica, che è l’hobby principale dei giovani di tutto il mondo, noi credevamo che il futuro sarebbe stato tutto anglosassone e invece, accanto ai gruppi internazionali, tuttora i ragazzi vogliono ascoltare anche la musica del proprio Paese, nella propria lingua e questo è interessante, perché da una parte conoscono la cultura universale e si somigliano molto, dall’altra vogliono sentire il loro “poeti” e questo è notevole. Però io vedo che i soliti problemi in tutti i Paesi in cui sono stato sono gli stessi: non tutti i popoli sono uguali, alcuni sono più o meno efficienti per risolvere certi problemi altri lo sono più per altri, però credo che ci sia qualcosa di forte in comune  tra i giovani del mondo».

Ha due anime, c’è differenza nell’allenare un’Italia o un’Argentina, rispetto alle altre Nazionali?

«Sicuramente allenare l’Italia e l’Argentina è diverso: banalmente mi emoziono di più, però ho avuto un rapporto affettivo molto forte anche con i ragazzi dell’Iran, che a livello emotivo mi ha riempito molto. Però non è la stessa cosa. Penso di essere arrivato a un punto, anche per età, in cui la mia esperienza piuttosto allargata, mi fa capire i codici molto velocemente: non divento più italiano se sono qua, più argentino se sono là, sono un po’ di quel Paese un po’ estraniero, da tutte due le parti. Qui dicono: “lui è così perché è argentino” e là “è così perché è stato molti anni in Europa”. A volte è vero, a volte semplicemente sono io che sono così, perché mia mamma non era un’argentina tipica, non vedeva i programmi Tv che vedevano tutti, non partecipava della cultura nazionalpopolare e io sono un po’ così. Ma non so mai quanto è mio e quanto dell’esperienza. Io cerco di non fare molti paragoni, quello che cerco sempre è di essere aperto per percepire le sfumature, per capire le cose che penso di dover capire, anche perché mi piace farlo».

È l’unico tecnico della storia ad aver vinto campionanti continentali in tre continenti: 3 europei con l’Italia; 2 asiatici con l’Iran, i panamericani con l’Argentina. Gli ingredienti della ricetta vincente sono sempre gli stessi?

«Più o meno sì, la prima cosa è avere buoni giocatori senza non si fanno miracoli; la seconda è che attorno a noi ci sia un minimo di organizzazione che consenta di fare sport di alto livello e poi ci vuole un po’ di fortuna, perché tante volte tra la vittoria e la sconfitta ci sono due palloni. L’ho già vissuto sia a favore che contro. Quando si vince si danno tante spiegazioni, ma poi se quella palla andava fuori era tutta un’altra storia. Avere buoni giocatori può non bastare: bisogna farli giocare in un certo modo, risolvere i problemi che ci sono, fare anche scelte coraggiose, perché è molto difficile che un leader, come un allenatore, possa creare un ambiente di fiducia tra i giocatori e con lo staff se ha paura, se non prende certe decisioni. Se non le prende perché pensa che non vadano prese è una cosa, se non le prende perché pensa a che cosa diranno, all’opinione del presidente e dei giocatori… allora non va bene».

Che cosa succede in questi casi?

«I giocatori sono come i figli, sanno la verità: ci guardano. Pensano questo: “Sbaglia come tutti, a volte lo vorrei ammazzare, però è uno che ci crede”. E se noi non crediamo nei nostri giocatori loro se ne accorgono e così è tutto in salita. Agli allenatori dico sempre: “Vi devono piacere i vostri giocatori, se vi piacciono quelli degli altri è un problema”. Ma non parlo dell’esagerazione di quei genitori che, come a volte adesso succede, attaccano il professore per l’insufficienza pretendendo che il figlio sia sempre il migliore in quanto loro figlio. Non è il migliore ma gli voglio bene perché è mio figlio, anche se magari non è bravissimo, non è che mi piacciano i miei perché sono per forza i migliori, mi piacciono perché sono i miei, come mi piacciono le mie figlie. Poi ci sarà un’altra ragazza che merita il premio Nobel e la mia no, ma non me importa niente, mi piace la mia. Con i giocatori è la stessa cosa e loro questo lo sentono».

Ha portato a vincere ragazzi iraniani, come vive questo momento storico?

«Ero nel consolato italiano la sera delle elezioni in cui ha perso le elezioni Ahmadinejad, i giovani sono usciti per le strade come se avessero vinto i Mondiali perché hanno sperato in un cambiamento, le ragazze senza velo speravano in un periodo di riforme e così non è stato. Ci sono state anche restrizioni in più come vietare alle donne di vedere la pallavolo che prima si poteva vedere. Così quella speranza di riformismo è morta e la repressione è molto dura. Un momento molto difficile».

Che cos’è rimasto nell’allenatore del professore di filosofia che avrebbe potuto essere?

«È rimasta la voglia che avevo a 18 anni di capire il mondo: ho studiato filosofia per quello. E la voglia di insegnare. Pensavo di fare il professore di scuola superiore. Neppure a quell’età mi sono mai visto come un intellettuale puro, con l’impegno che richiede la ricerca universitaria a tempo pieno: sono un uomo di riflessione, ma sono anche un uomo d’azione: credo che l’università mi abbia lasciato un modo di ragionare, di vedere le differenze di opinione come una cosa naturale, per esempio».

Oggi nelle università le opinioni stanno diventando un elemento di conflitto, che effetto le fa?

«È quasi una contraddizione in termini: noi viviamo in un mondo difficile, sembra che il ragionamento sia diventato “binario”: dimmi com’è, prendi posizione, la complessità dà fastidio. Ma a volte non c’è una risposta semplice e l’università dovrebbe essere il luogo della complessità. Quando dico che mi è rimasto un metodo, voglio dire che ogni problema che ho con le squadre cerco di vederlo in una dimensione più grande, intanto per valutarne la gravità, ma anche per capire se è davvero specifico o no. Mi chiedono da dove prendo le cose. Dappertutto, anche da una serie Tv che non ha niente a che fare con lo sport, da un libro: io immagazzino, non prendo appunti, ma poi torna fuori non so come. Anche parlando con gli altri: nel dialogo l’altro fa pensare, si pensa insieme anche quando si discute: se io devo difendere un’idea l’altro che la pensa diversamente mi sta facendo pensare, mi sta facendo elaborare argomentazioni per difendere un’idea. Io parlo molto con le persone, sono amico di diversi allenatori di altri sport, anche con le mie figlie, sempre mi arriva qualcosa. Ma non sono social:il nostro lavoro è molto semplice se vinci sei bravo se perdi sei un cretino, quindi pensiamo a vincere».

Se i ragazzi sono attratti dal calcio, in Italia la pallavolo è lo sport femminile per eccellenza. È un vantaggio per chi allena la nazionale femminile?

«Per le donne la pallavolo è quello che è il calcio è per i maschi, soprattutto per le ragazze alte. A livello maschile fa concorrenza il basket, anche se la pallavolo attira perché la nazionale di pallavolo maschile vince molto, quella di basket meno, ma il movimento del basket maschile è molto forte. Questo aspetto è vantaggioso per l’allenatore della femminile, ma potrebbe esserlo molto di più a condizione che si acceleri la formazione delle giocatrici, che è un po’ lenta per una forma di paternalismo maschile nei confronti delle donne. Quando facevo il direttore tecnico del settore giovanile sentivo allenatori delle giovanili dire: “Sai, le ragazze non capiscono” con tono di superiorità: ma como? Capiscono l’algebra, la fisica, il latino, l’italiano e non capiscono la pallavolo? Studiano più dei ragazzi. E poi basta avere una moglie: le donne fanno cinque cose intanto che noi ne facciamo una. Noi dobbiamo aiutarle in modo che riescano a fare. Nella nostra formazione anche scolastica spesso l’elemento principale si limita alla ripetizione, solo i grandi professori usano la discussione, l’elaborazione originale come elemento principale. In questo lo sport come la musica è una scuola straordinaria, non basta aver capito bisogna fare. Questo modo paternalistico non ci fa domandare: “Dove sbagliamo quando non mettiamo le donne in condizioni di imparare la pallavolo più velocemente?”. Se pretendiamo che imparino come imparano i maschi forse sbagliamo noi, perché sono donne, sono diverse. Dobbiamo cambiare noi, non possiamo appoggiarci alla nostra esperienza di giocatori maschi o di gruppi maschili perché le dinamiche sono diverse, spetta a noi capire, i buoni allenatori del femminile riescono a fare questo. Detto questo, ci sono anche allenatori di successo molto autoritari, anche maschilisti, nella vita c’è di tutto, non dico che ci sia un solo modo».

Quello di Velasco che modo è? 

«Voglio giocatrici autonome e autorevoli, che non si accontentano di fare quello che io dico. Voglio che loro sappiano di pallavolo e mettano in campo quel sapere. Se io so di pallavolo e loro no, che maestro sono? L’allenatore è prima di tutto un maestro. Autonomia significa più responsabilità, anche quando secoli di cultura patriarcale ti hanno trasmesso che non dovevi prenderla. Ti insegno a scegliere che cosa devi fare nel gioco (non nella vita, non sono un maestro di vita), a trovare le soluzioni migliori. Con loro questo funziona benissimo. La cosa migliore, perché questa rivoluzione in atto nella società si completi, ho un nipote adolescente vedo che tante cose nel rapportarsi sono cambiate, è far sì che le donne si prendano gli spazi, non che glieli diamo noi. Sono temi che piano piano affronterò con le ragazze della squadra. Le donne non sono difficili da allenare: sono molto più disciplinate, precise, professioniste. Mi dicono che è più difficile il rapporto tra loro. Vedremo, questo è parte del mondo che devo conoscere».





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