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Chi è Veronica Radaelli, il medico del Besta che interpreta Mary Poppins


Neuro-oncologa in corsia, attrice, ballerina e cantante sul palco, per finalità benefiche, con la compagnia Besta on stage, creata da lei e dal dottor Fabio Moda nel 2010, che riduzione dipendenti, amici e familiari dell'Istituto Neurologico Carlo Besta di Milano. Veronica Radaelli, 43 anni, è Mary Poppins nel musical ispirato al film della Disney del 1964, in scena il 18 e il 19 maggio al Teatro Silvestrianum e il 6 giugno al Teatro Giorgio Gaber per raccogliere fondi per la pediatria neuro-oncologica del polo milanese . Sul palco anche i suoi due bambini e il marito avvocato nel ruolo del burbero e severo papà Banks (“che a lui calza a meraviglia”). «Impieghiamo due anni a preparare uno spettacolo perché proviamo il recitato una volta al mese e il cantato una a settimana in cappella d'istituto con Fabio Moda, nella pausa pranzo. Normalmente preparo il coro di ballo quando sono da mia mamma a Lecco, alla scuola di arte e danza, dove ho studiato per tanti anni», spiega Veronica Radaelli. Dolce e serena nel parlare, pesando le parole, cui dà un significato che va oltre la professione, quanto temprata dagli eventi in corsia. Nella vita è riuscita a coltivare e coniugare due passioni: la danza e il sogno di diventare medico. E quando il secondo è diventato la sua professione, la prima gli ha aperto la porta, sapendo che non sarebbe stato un addio ma un arrivederci. Ad ascoltare il suo racconto viene in mente la frase di Forrest Gump: «La vita è una scatola di cioccolatini, non sai mai quello che ti capita». Mai metafora fu più azzeccata per lei.

«A sei anni dicevo di voler fare il medico e già indossavo le scarpette di danza classica. Il palcoscenico è nato proprio con il ballo a quell'età», racconta la dottoressa, figlia di un artigiano che produceva catene da neve e di una maestra delle scuole elementari, con cui ha riadattato diversi testi degli spettacoli del Besta. «Sono il primo medico in famiglia. In casa non si poteva neanche dire 'voglio fare la ballerina'. La danza, comunque, l'ho sempre frequentata in parallelo alle scuole, anche negli anni del liceo classico, il Manzoni di Lecco, dove lo studio era molto intenso. Quanto alla mia bravura, negli anni del liceo, forse, vinceva la danza. In quel periodo duro, persi il coraggio di affrontare la facoltà di Medicina perché non mi ritenevo più all'altezza. Così, preso il diploma, decisi di affidarmi alla scienza e al laboratorio e mi iscrissi alla facoltà di Biotecnologie mediche. Nel frattempo iniziai a insegnare danza. Ma alla fine il tarlo della Medicina si presenterà. Ricordo la difficoltà con cui dissi che volevo fare il medico alla mia tutor di tesi, la dottoressa Elena Battaglioli, che faceva progetti meravigliosi di laboratorio per mandarmi a Boston. Il giorno della mia seconda tesi, in Medicina, era in lacrime di gioia e sarà presente il 6 giugno allo spettacolo». Continua: «Sono ripartita da capo. In totale sono stati dieci anni di università vissuti pienamente. Il 2010 è stato l'anno della laurea in Medicina, del primo Besta on stage e delle vittorie in alcuni concorsi in giro per l'Italia con il mio gruppo di danza, bambine cui avevo iniziato ad insegnare quando avevo diciotto anni e loro sei e che vedremo sul palco».

In un certo qual modo è la danza che l'ha portata al Besta. «Ero interessato a una particolarissima malattia neurologica, la Corea di Huntington, un disturbo discinetico del movimento. Corea è un termine che deriva dal greco e significa 'danza'. Sono movimenti particolari che ricordano alcune mosse della danza contemporanea. Ero affascinata da questa malattia genetica, che si porta dietro anche tutto il mio bagaglio di studi di bioteconologia. In neuro-oncologia, dove sono arrivata, mi hanno spostata, poi sono ritornata, mi trovo benissimo, ho colleghi molto in gamba: non lavoriamo insieme, ma viviamo insieme. È dura, ma essere così uniti ci rende più forti».

Cosa non scorderà mai di questa straordinaria avventura che è la vita? La Radaelli non ha dubbi. «Il primo giorno in corsia con il camice addosso, al terzo anno di Medicina, ho iniziato a capire cosa significa questo lavoro, stare dall'altra parte di un tavolo con qualcuno che si affida a te. Chiacchierando con mio figlio che l'altro giorno mi chiedeva la differenza tra scienza e materie umanistiche gli ho risposto che la Medicina è la scienza umanistica per eccellenza, perché deve partire dall'umano. Il mio primario, il dottor Antonio Silvani, neuro-oncologo eccezionale che sarà sul palco con noi, mi continua a insegnare moltissimo sul rapporto con i pazienti oncologici. È l'impatto umano che bisogna imparare perché sono pazienti giovani, che vogliono che tu conosca la loro storia. Ti insegnano la vita e te la prendono anche. E noi dobbiamo riuscire a sdrammatizzare per riportare una casa noi stessi. Al polso porto un braccialetto che mi ha lasciato una paziente mia coetanea che non ce l'ha fatta, con due figli dell'età dei miei, con una scritta in irlandese: 'la tua vita, la tua avventura'».

Ma si tocca anche il fondo. «L'1 agosto del 2011, quando ho perso una giovane paziente di 19 anni per una malattia neurologica autoimmune. Era il periodo delle vacanze e il mio maestro andò in ferie. Io allora ero alle prime armi e non sapevo come gestire la situazione. Per me è stato un trauma. Iniziai un percorso psicoterapico perché non riuscivo più a lasciare l'ospedale per stare con lei anche il sabato e la domenica. Fu tutto inutile. Un mio giovane collega mi disse: 'il giorno dopo i pazienti che ti avranno davanti meritano di avere tutta te stessa e non una parte, come ti ha avuta lei il giorno prima'. La sera uscii con un'amica e conobbi mio marito».

Veronica nei panni di Mary Poppins.

Veronica nei panni di Mary Poppins.



Scienza e fede: dove finisce l'una, continua l'altra. «Sono e provengo da una famiglia molto credente, praticante quando riesco. Ma sicuramente mettere piede in ospedale mi ha richiesto una fede maggiore. Ciascuno di noi trova le proprie risposte. Spesso mi affido alla fede perché ne ho bisogno. A volte mi arrabbio con il 'piano di sopra' perché vorrei più interventi, soprattutto quando capita che in chiesa venga letto un brano dove ci sono descrizioni in cui Gesù guarisce. È inevitabile guardare in corsia». È l'eterna lotta tra il bene e il male. «Alle volte è anche dentro di noi. Nei film di Harry Potter il buon Albus Silente, che nella mia vita è il dottor Fabrizio Tagliavini, a un certo punto dice a Harry che noi non siamo tutti buoni o tutti cattivi, siamo chi scegliamo di essere. Tutti i giorni siamo posti di fronte a questa difficile scelta». Conclude: «A volte dà un po' di sollievo che ci sia un progetto che noi non possiamo comprendere. Se guardo il mio braccialetto al polso, deve esserci una risposta più alta, altrimenti sembra solo cattiveria. E la parola sfortuna stona in tutto questo, è troppo poco».

Albus Silente dice anche un'altra cosa: «Non provare pietà per i morti, Harry. Prova pietà per i vivi, e soprattutto per coloro che vivono senza amore”. E ancora: «Sono le nostre scelte, Harry, che dimostrano chi siamo, molto più delle nostre capacità».





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