Istruzione

“Sì alla competizione a scuola, non è una brutta parola. Basta spiegare che si vince grazie a chi ha giocato”. INTERVISTA a Roberto Farnè – Orizzonte Scuola Notizie


Cosa vuol dire essere insegnati oggi? Ne abbiamo parlato con il Professor Roberto Farnè, Già professore ordinario in Didattica generale, è ora docente a contratto per l’insegnamento di “Pedagogia del gioco e dello sport” nel corso di laurea in Scienze motorie, presso il dipartimento di Scienze per la Qualità della Vita dell’Università di Bologna.

Professor Farnè, cosa vuol dire essere insegnanti oggi e come è cambiata questa professione nel tempo?

La professione nel tempo è cambiata perché sono cambiati i tempi, ovvero è cambiata la scuola e sono cambiati i bambini. Da questo punto di vista quando sento dire che la scuola è in crisi, che l’educazione è in crisi, rispondo sempre che la scuola è fisiologicamente in crisi, perché è chiamata a gestire dei processi di cambiamento. La parola crisi va vista nel suo significato autentico, vuol dire passaggio, cambiamento, e quindi come tale non mi aspetto mai che la scuola sia una realtà tranquilla dove tutto funziona, dove tutto va bene. Poi ovviamente la scuola deve funzionare, per cui ci sono criticità che vanno affrontate e risolte perché rendono la scuola disfunzionale, ma che non sono la dimensione di crisi che significa lavorare per attivare dei processi di cambiamento.

L’educazione comunque la guardiamo, da qualsiasi punto di vista, che sia scolastico, extrascolastico o familiare, è sempre cambiamento. Un bambino entra a scuola a sei anni che non sa leggere e scrivere e qualcuno glielo insegna ed acquisisce queste competenze, questo è un processo di cambiamento che come tale esige anche sforzo, fatica e impegno. I cambiamenti non sono mai piacevoli, l’importante è come vengono fatti vivere, la competenza pedagogica è proprio quella di gestire i cambiamenti nei processi educativi, rispettando però i diritti dell’infanzia, in modo che questi cambiamenti diventino formativi, cioè aiutino la persona fin dall’infanzia a definire la propria formazione, il proprio essere.

Oggi ci troviamo di fronte ad una situazione che presenta delle criticità, delle difficoltà, che non erano quelle di 50 anni fa. Se solo pensiamo ai cambiamenti che sono avvenuti nell’arco di un paio di generazioni, possiamo vedere che queste criticità toccano in maniera significativa la figura dell’insegnante che oggi è una figura che presenta delle difficoltà probabilmente perché fa fatica a gestire dei processi educativi di cambiamento che hanno delle caratteristiche molto particolari, ad esempio chi poteva immaginare 50 anni fa che i social network, le tecnologie ed internet sarebbero stati fenomeni così invasivi nella vita quotidiana, quali sfide pongono queste tecnologie all’educazione e quindi la scuola come deve porsi, l’insegnante come deve porsi, con un atteggiamento di accettazione o di rifiuto, di negazione?

Tutti questi aspetti oggi mettono l’insegnante di fronte a delle scelte che, come ho detto, fanno parte di quella che è la fisiologica crisi della scuola nel gestire i cambiamenti dei processi educativi, ma le risposte di oggi non le possiamo trovare nel passato, queste risposte l’insegnante le deve trovare oggi, nel tempo in cui vive, e da questo punto di vista all’insegnante è chiesta non solo la competenza del tipo didattico-psico-pedagogica necessaria a fare l’insegnante, questo vale dalla scuola dell’infanzia fino alla secondaria di secondo grado, ma è richiesta anche una competenza dal punto di vista del proprio essere insegnante, che non è il fare l’insegnante, ovvero fare l’insegnante ma anche l’essere insegnante. Questo lo dico con maggiore enfasi oggi anche perché quest’anno è il centenario della nascita di Alberto Manzi che è stato un insegnante che ha guardato molto alla dimensione proprio dell’essere, della sua identità professionale che andava al di là della sua capacità didattica, che pure c’era ed era molto significativa.

Prendendo spunto dalle sue parole le chiedo come può un insegnante capire se la sua didattica è efficace?

I modi sono diversi, uno può dire che una didattica è efficace semplicemente perché vede i bambini che imparano, ma i bambini imparano anche perché gli impongo di imparare, i bambini sono obbedienti, docili e studiano, per cui questo è sì un indicatore ma lo è in modo parziale. Possiamo dire che la didattica ha la sua efficacia nella relazione, ad esempio si può verificare la situazione di una classe dove quando c’è un certo insegnante i bambini sono attenti, partecipi, interessati e così via, mentre quando c’è un altro insegnante i bambini sono disinteressati, ribelli, indisciplinati e via dicendo, eppure la classe è sempre quella, i bambini sono gli stessi, ma questo esempio ci serve per dire che è evidente che c’è uno stile dell’insegnante che dà forma alla didattica e questo i bambini, così come i ragazzi, lo percepiscono perfettamente.

Prima che all’oggetto dell’insegnamento, i bambini ed i ragazzi sono interessati al soggetto che insegna, cioè la figura dell’insegnante, per come si pone, è più interessante di quello che insegna, della materia che insegna. Quindi l’efficacia dell’attività d’insegnamento è molto legata ovviamente alla competenza didattica che riguarda l’insegnamento della materia, ma è legata anche allo stile, al modo di porsi, alla capacità di costruire relazioni, all’essere autorevole come insegnante, che non vuol dire essere autoritario. L’autoritarismo è patologico in educazione perché nega il dialogo, nega la relazione, impone l’autorità, l’autorevolezza, invece, è una relazione pedagogicamente positiva perché nell’asimmetria del rapporto educativo instaura comunque una dimensione dialogica e quindi è credibile per i bambini e per i ragazzi, loro si fidano dell’insegnante quando l’insegnante sa porsi con una relazione significativa ancorché autorevole.

Lei ci ha spiegato l’aspetto legato all’efficacia della didattica, ma quanto è importante anche l’approccio attivo nella didattica?

L’approccio attivo oggi è uno dei grandi punti deboli del nostro sistema scolastico. La nostra non è una scuola attiva, lo è molto meno di quanto lo sia in altri paesi europei dove la dimensione attiva, laboratoriale eccetera è molto più presente. Anzi, devo dire che negli ultimi 30/40 anni la nostra scuola si è sempre più passivizzata. Questo è uno dei problemi che ha la scuola oggi, questa passivizzazione che porta i bambini a stare seduti in classe per tantissime ore e a non usare il corpo, a non usare le mani, e questo fa male. Ritengo che dobbiamo riflette in maniera molto spregiudicata sul fatto che oggi la scuola crea malessere, perché ovviamente agisce sui bambini e sui ragazzi con una didattica basata molto su una pressione, come i tempi stretti, gli apprendimenti veloci, verifiche e prove di vario tipo eccetera, mentre il corpo e il movimento sono relegati a frazioni di tempo insignificanti.

L’Italia in Europa è il paese dove a scuola si fa meno attività motoria e questo nuoce, fa male, abbiamo ricerche che dimostrano che i bambini a scuola incamerano malessere e non è la pandemia, qui non c’entra niente, è sconfortante rendersi conto che ci voleva la pandemia per capire che i bambini guadagnano in salute più stanno all’aperto e meno stanno al chiuso. È una cosa che in realtà si è sempre saputa, eppure non è bastata nemmeno la pandemia, oggi i bambini stanno chiusi e seduti, sia a scuola che a casa oppure in macchina. Cinquant’anni fa il problema non esisteva perché i bambini si muovevano, finito la scuola facevano i compiti, velocemente, e poi andavano fuori a giocare, questa era la vita normale di un bambino, che fosse in città o in campagna così era, si trovava con i suoi amici e giocavano, sviluppavano quelle competenze psicomotorie che facevano parte della normale attività di un bambino fuori della scuola. Oggi questa dimensione non c’è più, è cambiata la città, sono cambiati gli spazi, sono aumentate le ansie e le preoccupazioni su rischi e pericoli, però ci accorgiamo del danno che tutto questo provoca sui bambini.

Abbiamo bisogno di preoccuparci di questa dimensione, perché se non la curiamo questa fa male e lo si vede nel tempo. Ognuno dovrebbe fare la sua parte, anche la scuola, in realtà oggi la scuola tiene i bambini in posizione passiva, non attiva, per moltissimo tempo, per gran parte del tempo. Faccio sempre l’esempio della scuola finlandese, che è indicata come uno dei migliori sistemi scolastici nel sistema OCSE, ebbene nelle scuole finlandesi ad ogni ora di lezione c’è un quarto d’ora d’intervallo dove i bambini possono alzarsi, girare, uscire, giocare, parlare e muoversi negli spazi della scuola, sia dentro che fuori.

Questo non perché c’è il problema del rilassarsi o del dare sfogo ai bambini, ma perché gli insegnanti sanno, e le ricerche lo dimostrano, che quei 15 minuti liberi, di movimento, si riversano positivamente sui tempi didattici e di apprendimento successivi. Noi oggi abbiamo situazioni allucinanti dal punto di vista della condizione dell’infanzia e del diritto dei bambini, abbiamo scuole dove i bambini hanno, se va bene, 15 minuti d’intervallo nella mattinata, non possono uscire nel cortile, devono mangiare seduti nel banco eccetera. Questo non solo fa male dal punto di vista psicologico e fisico, ma va contro i diritti del bambino. Una scuola che non è attenta al benessere, nel senso dello star bene, che non si preoccupa del fatto che i bambini prima di tutto devono stare bene a scuola, è una scuola che contraddice i suoi principi e non funzionerà bene nemmeno come scuola.

Lei recentemente ha partecipato al convegno del CPP a Piacenza e parlando della competizione ha fatto un paragone con lo sport parlando della cultura del podio, questo per dire che si parla sempre della competizione con un’accezione negativa, ma può essere utile a scuola?

Certo che può essere utile, la competizione non è una brutta parola, bisogna anche qui sfatare dei pregiudizi e degli atteggiamenti ideologici, perché un conto è ritenere che la competizione sia un aspetto dove conta solo se sei vincitore, se arrivi primo, altrimenti sei un perdente, ma questa è una ideologia della competizione. La competizione nel suo senso autentico ha un significato molto chiaro, viene dal latino cum petere, cioè chiedere insieme.

La competizione è un patto reciproco, è una condivisione, quando i bambini giocano competono perché innanzitutto condividono il gioco, le sue regole, gli altri compagni con cui giocare, poi ovviamente si confrontano. Ma questo non avverrebbe se non ci fosse la condivisione, ad esempio due squadre di calcio o di basket entrano in campo e certamente competono una con l’altra, ma prima di questo condividono, condividono il campo, i tempi, lo spazio, insomma condividono tutto del gioco, ovviamente nel confronto ci sarà qualcuno che vince.

Ma attenzione, perché quel qualcuno che vince, vince grazie a chi ha giocato con lui, perché se io non gioco con te, tu non hai nemmeno la possibilità di vincere, se tu vinci è perché io ho accettato di giocare con te. La competizione è una grande scuola di vita quando è leale, ovviamente, quando è partecipativa e quando chi non vince non vuol dire che è un perdente, vuol dire che ha misurato le sue capacità con altri ed ha capito dove si colloca. Uno può essere più o meno bravo in un gioco o in un altro, così come ci sono bambini che sono più bravi in storia e meno bravi in matematica, mentre altri che sono più bravi in scienze e meno bravi in italiano e questo non crea dei problemi. Un conto è vivere la competizione come l’ideologia dell’essere vincenti, e questo è terrificante, un altro conto è vivere la competizione come il confronto nel quale tu conosci le tue capacità, a partire da una condivisione.

Credo che questa sia la scuola della competizione, inoltre dobbiamo smetterla col pensare che lo sport sia competitivo e quindi diseducativo perché educa all’essere vincitore. La nostra cultura e la nostra civiltà nascono nell’antica Grecia che ha inventato il concetto di agonismo, la parola agonismo significa lotta, mettercela tutta, impegnarsi al massimo delle proprie capacità, e guarda caso l’antica Grecia ha inventato la competizione dappertutto. Gli antichi greci competevano non solo nell’atletismo, nelle gare atletiche, ma competevano nel teatro, nella musica, nella poesia. Se leggiamo la letteratura della civiltà greca noteremo che la competizione animava tutta quella cultura, ma oggi noi non facciamo altrettanto? In questi giorni è iniziato il festival del cinema di Cannes che è una competizione, alla fine ci sarà un film che vincerà la palma d’oro, un regista che sarà giudicato la migliore regia, un attore che sarà il migliore attore, ma non è competizione questa? Così come il festival di Sanremo è una competizione canora, c’è qualcuno che vince e c’è una graduatoria, perché non ci scandalizziamo di fronte a questo? Anche i premi letterari sono competizioni dove degli scrittori si mettono in gioco con delle opere ed una giuria decide qual è il romanzo migliore dell’anno.

Questo per dire che dobbiamo abituarci ad una visione sana della competizione dove il confronto consente di conoscersi e di conoscere sé stessi, nella lealtà e nella correttezza. Là dove poi la competizione, invece, viene inquinata, allora questo è un altro discorso e abbiamo il dovere di smascherarla e condannarla proprio perché noi diamo alla competizione un valore alto.

Un’ultima domanda. Siccome lei ha citato gli antichi greci, ricordo che proprio al convegno del CPP lei ha portato l’esempio del Pentatlon per dire che non bisogna per forza eccellere ma bisogna essere mediamente bravi in tutto per vincere. Ci spiega questo aspetto?

Ho portato l’esempio del Pentatlon che era una delle gare atletiche che caratterizzava i giochi atletici dell’antica Grecia, ce n’erano molti e non solo quelli di Olimpia, le olimpiadi erano quelle più famose. Nell’ antica Grecia non c’erano i giochi di squadra, che sono nati nell’età moderna nell’Inghilterra del XIX secolo, quindi i greci avevano delle varie competizioni come il salto in lungo, il lancio del giavellotto, del disco, la lotta eccetera, ed ognuno poteva essere un atleta eccellente in una di queste discipline, poteva essere il più bravo a correre, a lanciare e così via.

Però poi avevano inventato anche il Pentatlon e questa la trovo un’idea geniale, vista anche dentro quella che era la filosofia dell’aretè greca, cioè l’essere il migliore e cosa volesse dire, per cui tu sei il migliore non se sei bravissimo in una cosa, ma se sei mediamente bravo in tante cose diverse. Competere nel Pentatlon voleva dire che tu competevi in cinque diverse discipline e dovevi ottenere il miglior risultato possibile in tutte e cinque, dunque essere vincitore nel Pentatlon non voleva dire essere il più bravo nella lotta o il più bravo nella corsa, perché probabilmente il più bravo nella corsa era più bravo di te, voleva dire essere il più mediamente bravo in cinque discipline diverse.

Questo mi porta ad una considerazione che ritengo molto bella, intanto nell’ambito sportivo il valore che ha il multisport, per cui un bambino non dovrebbe fare, almeno fino ai 10-11 anni, un solo sport, ma dovrebbe farne diversi, perché ogni disciplina sportiva, come uno sport di squadra, un individuale, uno di lotta, una disciplina atletica, sviluppa intelligenze diverse, invece purtroppo da noi un bambino inizia uno sport, come può essere il calcio o il nuoto, e fa solo quello ed è sbagliato perché dovrebbe praticare diversi sport; ma soprattutto questo è anche un indicatore pedagogico della scuola per cui un bambino è bravo non se prende nove in matematica e fra il cinque e il sei in tutte le altre discipline, ma è bravo se prende sette dappertutto, allora sì che è veramente bravo, poi certo non è il più bravo in scienze o in italiano, ma è mediamente bravo dappertutto e lui potrà fare qualunque scelta.



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