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Dossier: La Maschera della Morte Rossa (1964), Roger Corman alle prese con Edgar Allan Poe


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22/05/2024 recensione film di Francesco Chello

Ricordiamo il grande cineasta recentemente scomparso attraverso uno dei suoi film più apprezzati. Satanismo, disillusione religiosa, lotta di classe sono solo alcuni degli ingredienti di un film che può contare su una riuscita atmosfera dai forti cromatismi e sul talento istrionico di un impeccabile Vincent Price

Vincent Price in La maschera della morte rossa (1964)

Cinematograficamente parlando, la notizia di questi giorni non può che essere la scomparsa di Roger Corman alla veneranda età di 98 anni. Uno di quei personaggi bigger than cinema, mi pare si dica così, ma forse faccio confusione. Regista (come ci teneva ad essere ricordato), soprattutto produttore (e distributore), all’occorrenza attore (quasi sempre per sfizio), occasionalmente sceneggiatore. Fondamentalmente cineasta. Oltre che grande scopritore di talenti, che non è una figura contemplata dal curriculum di IMDb ma diamine se conta. In generale, personaggio creativo, commercialmente acuto, produttivamente prolifico.

Proprio la scorsa settimana mi è capitato di dare un’occhiata ad un film da lui diretto che ancora mi mancava. La Creatura del Mare Fantasma, del 1961. Sul mio Letterboxd (il mio avvocato dice che se non metto il link non è clickbait) l’ho definito come una delle cose peggiori che Corman abbia mai realizzato.

Che a dirlo ora può sembrare ingeneroso, e sicuro spunterà qualcuno che puntandomi il dito mi urlerà di pentirmi. Ma se ci apprezzate (o fingete di farlo) immagino sia anche per la nostra coerenza, non ha senso la rivalutazione postuma di qualsiasi cosa. Anche perché uno come Corman non ne ha bisogno. Con una carriera ed una filmografia a vario titolo in cui prevalgono (e di parecchio) i meriti.

Insomma, l’esempio del film sopracitato era giusto per ricollegarmi al discorso della prolificità. Ed introdurre quello sulla sua filosofia. Realizzare molto, possibilmente spendendo poco, profittare il più possibile. Set e/o cast e/o crew condivisi da più produzioni contemporaneamente, spesso realizzate in tempi strettissimi col record che spetta di diritto a La Piccola Bottega degli Orrori (The Little Shop of Horrors, del 1960) girato in appena due giorni ed una notte e diventato uno dei suoi lavori più conosciuti. Una concezione del business cinematografico che nelle sue mani è diventata un’arte.

roger cormanroger cormanPerché di artista si tratta, appunto. Non a caso, Roger Corman viene considerato come uno dei più importanti ed influenti personaggi del cinema indipendente. Soprannomi come ‘The Spiritual Godfather of New Hollywood’, ‘The King of Cult’, ‘The King of Drive-In’, ‘The Pope of Pop Cinema’, ‘The King of B-Movies’ non ti vengono affibbiati senza un motivo ben preciso.

E ci sta, quindi, che in quel calderone finiscano anche titoli, per così dire, imperfetti. Col plus che lui spesso riusciva a trarre profitto anche da quelli, specie tra circuiti drive-in, grindhouse e via discorrendo.

L’arte del vendere, del distribuire, del capire cosa chiedeva il pubblico. Col pregio di tirare fuori (spesso e volentieri) tante belle cosette. Oltre a scovare, dicevo, tanti nomi passati per la sua factory che in quel business lasceranno il segno come e (in certi casi) più di lui. E qualche nome magari facciamolo, giusto per rendere l’idea. Francis Ford Coppola, Jack Nicholson, Martin Scorsese, Joe Dante, James Cameron, Peter Bogdanovich, Jonathan Demme, Jack Hill, Ron Howard, Peter Fonda, Bruce Dern, Charles Bronson, Dennis Hopper, Talia Shire, Robert De Niro, David Carradine, Sandra Bullock. Vabbè mi fermo, immagino di averla resa.

Roger Corman nasce a Detroit nel 1926. Studia ingegneria industriale a Stanford dove si laurea nel 1947, nel frattempo aveva combattuto in Marina durante la Seconda Guerra Mondiale. Con l’aiuto del fratello Gene (al tempo agente cinematografico, in seguito produttore insieme a lui) ottiene un impiego (smista la posta) alla 20th Century Fox dove successivamente diventa revisore di sceneggiature. Sfrutta una borsa di studio riservata ai veterani di guerra per studiare letteratura a Oxford.

Nel 1953 esordisce come produttore, nel 1955 come regista quando nello stesso anno è dietro la macchina da presa di ben tre film (più un quarto non accreditato), proprio per mettere in chiaro fin da subito quello che sarà il suo tipico modus operandi. Il fanta-horror è il genere che si presta meglio al concetto dell’inventiva a basso costo, ma non è l’unico trattato in una carriera sufficientemente variegata.

Dirige e produce film per l’American International Film ma anche per altri studios, nel 1970 fonda la sua New World Pictures dopo il primo tentativo (1959/1962) con la Film Group con cui realizzava e distribuiva film in bianco e nero in modalità double feature. Eclettico, instancabile, pragmatico.

Fantasiosamente inventivo. Per certi versi ribelle. Quella capacità di capire l’onda del momento e tuffarcisi a prescindere dal ruolo che avrebbe poi ricoperto nel progetto. Come negli anni ’50 quando proponeva fantomatici mostri, bizzarre creature, alienozzi di vario tipo. Oppure negli anni ’60 quando coglie subito le potenzialità del ritorno all’horror gotico (e in costume) e ci si fionda realizzando alcuni dei suo i maggiori successi da regista ovvero il ciclo di film tratti dalle opere di Edgar Allan Poe, otto titoli realizzati tra il 1960 ed il 1964.

La maschera della morte rossa (1964) film posterLa maschera della morte rossa (1964) film posterIl Piranha di Joe Dante del 1978, con cui sfruttare in qualche modo la scia del capolavoro Lo Squalo (Jaws) di tre anni prima. Tanta exploitation, naturalmente. Il gangsteristico in vari momenti, con un occhio di riguardo nei confronti di personaggi ed eventi realmente esistiti come La Legge del Mitra (Machine Gun Kelly del 1958 – primo ruolo da protagonista per Charles Bronson), o Il Massacro del Giorno di San Valentino del 1968, prima volta con uno studios (ancora la Fox) e con un budget più serio che Corman riuscirà incredibilmente a limare al ribasso portando la produzione 200mila dollari sotto la cifra inizialmente pattuita.

La denuncia sociale de L’Odio Esplode a Dallas (The Intruder, 1962) con un William Shatner pre-Kirk.

Lo psichedelico Il Serpente di Fuoco (The Trip, 1967), due anni prima di Easy Rider. Il distopico (e più o meno satirico) Anno 2000 – La Corsa della Morte (Death Race 2000 del 1975). La Spada e La Magia (Sorceress) prodotto nel 1982 per capitalizzare l’effetto Conan il Barbaro.

O ancora, sul finire del primo decennio degli anni 2000 quando intuisce l’appeal degli animali assassini (e delle loro derivazioni assurde) in CGI da discount che stava diventando prerogativa dell’Asylum (in primis), aggregandosi con produzioni (spesso per Sy-Fy) di cosette deliranti come Dinocroc e Supergator (che daranno vita al crossover Dinocroc vs Supergator), Sharktopus (che avrà due sequel vs Pteracuda e vs Whalewolf), Dinoshark o Piranhaconda.

Chiaramente la mia non vuole essere una lista esaustiva, ma un semplice portare alcuni degli esempi tra i tanti che si possono fare (di getto, senza prepararmi una scaletta, con chissà quanti lasciati fuori) per rafforzare l’aura del personaggio.

Un altro esempio però ci tengo a farlo e con la cognizione di causa di chi voleva piazzarlo da tempo in un discorso su Roger Corman, proprio perché tra quelli che generalmente vengono menzionati di meno (per non dire per niente), probabilmente per snobismo verso un sottogenere che io invece gradisco molto come l’action marziale; tra la fine degli anni ’80 e l’inizio del ’90 scoppia la ‘Van Damme mania’, che genera un vero e proprio filone di cloni ed epigoni più o meno interessanti (che vedo – e colleziono – tutti), Roger Corman si fa trovare pronto lanciando la propria scoperta marziale prendendola direttamente dal ring, ovvero Don ‘The Dragon’ Wilson che magari non aveva il carisma filmico della star belga ma campione di kickboxing lo era stato sul serio e compariva sui credits con tanto di titoli (veri) sportivi realizzando una serie di piccoli ma divertenti film ancora oggi apprezzati da quelli con i miei gusti – e che in questi giorni ha pubblicato un sentito omaggio a colui che aveva creato dal nulla la sua carriera cinematografica.

Non l’unico, considerando che tanti nomi noti hanno dedicato un pensiero alla sua scomparsa, a conferma di quanto fosse realmente benvoluto nel settore (beh, a parte Paul Schrader) che non è certo una cosa scontata o di circostanza.

Come avrete capito (nel senso che è scritto nel titolo dell’articolo), l’intenzione è quella di celebrare Roger Corman attraverso uno dei suoi lavori da regista. Non mi sono scervellato per individuare un film che lo rappresentasse meglio rispetto ad un altro o uno che avesse qualche significato particolare per la sua carriera. Tantomeno il mio preferito, per il semplice fatto che per qualche motivo non mi sono mai chiesto quale fosse effettivamente. Preferito lo era (insieme a L’Odio Esplode a Dallas e L’Uomo dagli Occhi a Raggi X) dello stesso Corman.

Hazel court in La maschera della morte rossa (1964)Hazel court in La maschera della morte rossa (1964)Ad ogni modo, l’importante, in questo caso, è la ‘scusa’ per parlarne, per tratteggiane un ricordo. Così la mia scelta è caduta su La Maschera della Morte Rossa (The Masque of Red Death) del 1964, penultimo titolo del già citato ciclo di Poe di cui (questo sì) rappresenta uno degli esempi migliori e generalmente più apprezzati.

La sceneggiatura di Charles Beaumont e R. Wright Campbell nasce quindi dall’omonimo racconto di Edgar Allan Poe del 1842, mescolato ad elementi di Hop-Frog del 1849, altra short story del celebre scrittore americano.

Roger Corman riteneva che The Masque of Red Death, insieme a The Fall of the House of Usher, fosse tra le storie di Poe migliori in assoluto. Proprio House of Usher, in Italia arrivato come I Vivi e i Morti, aveva aperto il ciclo di adattamenti cinematografici nel 1960.

La Maschera della Morte Rossa avrebbe dovuto essere il secondo, ma Corman temeva che avesse diversi elementi in comune con Il Settimo Sigillo del 1957, motivo per cui si convinse a posticiparlo in modo che il ricordo del film di Ingmar Bergman fosse meno fresco nella mente degli spettatori, un lasso di tempo che gli ha permesso di ottenere uno script più soddisfacente dei primi draft ad opera di John Carter, Robert Towne, Barboura Morris.

La prima bozza di Charles Beaumont aveva colpito Corman grazie all’idea di introdurre un principe Prospero satanista, una bozza che però andava rifinita cosa a cui Beaumont dovette rinunciare non potendo affrontare il viaggio in Inghilterra per motivi di salute, portando all’ingaggio di R. Wright Campbell (che per Corman aveva già scritto 5 per la Gloria – The Secret Invasion – uscito sempre nel 1964) che, tra le altre cose, decide di integrare la sottotrama del nano prendendola da Hop-Frog ispirata a sua volta a fatti realmente accaduti nel 1393 quando Carlo VI ed alcuni dei suoi lord si travestirono durante una festa in maschera ed i loro vestiti presero fuoco a causa di una scintilla portando alla morte alcuni di loro.

Si vola quindi in Inghilterra, per la prima produzione che il buon Roger realizzerà nella terra di Albione, attratto dalla possibilità di usufruire di sussidi e sgravi fiscali. Saranno cinque le settimane di riprese, con Corman che si lamenterà della lentezza degli inglesi (e del loro immancabile tea break) che a suo dire avrebbe portato almeno ad una settimana di troppo rispetto ai suoi standard – gli altri film del ciclo erano stati realizzati addirittura in tre settimane.

Il nome di Prospero non salta fuori a caso nell’economia del progetto, La Maschera della Morte Rossa è uno di quei film che vive molto del suo protagonista, nonostante quest’ultimo sia un personaggio dalla fortissima connotazione negativa. Un tratteggio particolare che per funzionare comporta il non poter assolutamente sbagliare la scelta dell’attore a cui affidare una parte così determinante.

Chi se non il grandissimo Vincent Price, che del ciclo Corman/Poe è volto principe con sette presenze su otto e che ha tutte le caratteristiche per reggere la scena indossando panni di un certo tipo. E che, confesso, è uno dei motivi per cui ho scelto questo film, visto che si tratta di un interprete che adoro.

Jane Asher in La maschera della morte rossa (1964)Jane Asher in La maschera della morte rossa (1964)Price è magnetico, il suo parlare flemmatico diventa minaccioso anche nel semplice modo in cui maneggia un coltello; Prospero è fondamentalmente un uomo spregevole e ripugnante, lui lo porta in scena con la consueta classe, eleganza, con quel fare mefistofelico tipicamente suo. Un uomo colto, tormentato da demoni interiori. Non so se poterlo definire affascinante, per il semplice fatto che Prospero si macchia delle peggio cose, ma questo rende l’idea sul potere recitativo di Price, anche lui alla prima di svariate produzioni a cui prenderà parte in Inghilterra.

Attraverso ragionamenti sul satanismo, il suo character si avventura in interessanti discorsi di disillusione religiosa. Discorsi su Dio, sul fatto che sia morto, sulle disgrazie terrene (non ultima la cosiddetta Morte Rossa) che dovrebbero confermare questa tesi, con qualcuno o qualcosa (Satana) designato a governare al suo posto.

Emblematico il gusto con cui ad un certo punto pronuncia la frase ‘where is your God now?!”. Ruolo ed argomentazioni che si incastrano in un’atmosfera generale sicuramente riuscita. Un contesto di lussuria e di futile perdizione che enfatizza negativamente la lotta di classe, ad uscirne malissimo evidentemente i ricchi/nobili che perpetuano la propria vacuità prostrandosi ed umiliandosi al cospetto di colui che ha più potere di tutti e rendendosi partecipi di comportamenti riprovevoli.

L’uomo come animale sociale, confermando una delle tematiche preferite di Corman. Atmosfera che poggia molto sull’aspetto cromatico, a partire da quel rosso presente nel titolo così tanto temuto da Prospero, che colorerà un finale visionario che riesce a ribaltare e confermare allo stesso tempo il dilemma religioso: l’uomo che diventa vittima dei propri desideri, a dimostrazione che ogni uomo crea il proprio Dio, il proprio Paradiso ed il proprio Inferno.

Un finale che prima di chiudersi su una didascalia dello stesso Edgar Allan Poe – “..and Darkness and Decay and the Red Death held illimitable dominion over all” – sottolinea i molteplici volti della morte proprio attraverso quei cromatismi così marcati (uno per ogni malattia che ha tormentato il medioevo), che passano anche attraverso le suggestive stanze colorate, tassello di un impianto scenografico (curato da Daniel Haller che inizialmente non viene accreditato per fare in modo che la produzione venga qualificata come britannica, e che utilizza anche parte dei set di Becket ed il suo Re uscito lo stesso anno) che completa il comparto tecnico fornendo una grossa mano alla creazione del quadro ambientale.

Sarah Brackett in La maschera della morte rossa (1964)Sarah Brackett in La maschera della morte rossa (1964)Se il bosco e la sua nebbia sottolineano la desolazione di chi vive all’esterno, è il castello a farla da padrone con i suoi spazi sfarzosi (su tutti, il salone delle feste), ma anche con l’inquietudine dei suoi sotterranei. Contesto a cui contribuiscono i costumi, dai nobili variopinti al ballo in maschera, passando per le diverse mise di Prospero al look della Morte, con le armature di cuoio dei soldati che saranno riutilizzate ne Il Gladiatore del 2000. Accompagnamento musicale adeguato ad opera di Les Baxter, come di consueto.

La giovane Jane Asher porta al personaggio di Francesca la giusta via di mezzo tra innocenza e ostinazione, l’attrice chiederà a Roger Corman di poter portare sul set un amico che quella sera avrebbe tenuto il suo primo concerto a Londra, si trattava di un certo Paul McCartney. Hazel Court è Juliana, amante di Prospero particolarmente dedita al culto satanico, al centro di un momento volutamente onirico. Hop-Toad è affidato a Skip Martin, attore nano, mentre sua moglie Esmeralda è in realtà la bambina Verina Greenlaw opportunamente doppiata da una voce adulta. Nel cast avrebbe potuto esserci anche Basil Rathbone, inizialmente annunciato come co-star di Price.

La Maschera della Morte Rossa è uno dei tanti esempi della preziosa eredità lasciataci da un cineasta a tutto tondo come Roger Corman. Un uomo che può essere visto come ideale anello di congiunzione tra due figure talvolta in contrasto come regista e produttore, lui che amava definire il cinema come la perfetta forma d’arte del 20° secolo, una forma d’arte leggermente corrotta che si adatta perfettamente al secolo che la ospita proprio per il modo in cui riesce a combinare arte e business. Una combinazione in cui Corman era e resterà Maestro indiscusso.

Di seguito trovate il trailer internazionale di La Maschera della Morte Rossa:



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