L'incontro con George Lucas a Cannes e perché non rimasterizzerà mai l'edizione originale di Guerre Stellari
Da qualche anno è cambiato quello che Cannes fa con le sue masterclass. Benché continuino a essere invitati autori europei, non per forza magistrali o venerati (quest’anno c’era Valeria Golino), sono anche il momento nel festival in cui celebrare la porzione più popolare di cinema. Meryl Streep quindi, ma anche George Lucas, l’uomo che forse più di tutti ha influito, cambiato e rivisto il cinema mainstream. Entrambi premiati con la Palma d’oro alla carriera. Uno dei cineasti e dei produttori più influenti e importanti, anche per la televisione e i videogiochi. Ora arriva a Cannes dopo aver venduto qualche anno fa la Lucasfilm alla Disney. E mentre la sala attende che entri viene diffusa tutta la colonna sonora di I predatori dell’arca perduta.
Ed è come un innovatore tecnologico, principalmente, che lo introduce Thierry Fremaux. Un pioniere e poi un artista, un cineasta e un creatore. In un’ultima analisi un rivoluzionario del cinema americano. Lucas, non sorprendendo nessuno, aveva una camicia a scacchi. Nel pubblico c’era Walter Murch: i due erano qui 50 anni fa con THX 1138 – L’uomo che fuggì dal futuro, Murch scrisse la sceneggiatura del film con Lucas.
Durante l’incontro Lucas è stato un fiume in piena, ha parlato cambiando argomento, aprendo parentesi, facendo digressioni e in pratica illustrando tutta la sua carriera. Ma prima ha iniziato con un aneddoto di Cannes….
Ricordo di essere stato qui ma non in concorso. Non faccio quel tipo di film che vincono premi.
In The Fablemans c’è un momento in cui Spielberg si innamora del cinema vedendo Il più grande spettacolo del mondo. Hai anche tu un momento che ti ha spinto a fare film?
Io ho studiato antropologia e scienze sociali, prima avevo fatto la scuola d’arte, imparai a diventare un illustratore e facevo molta fotografia, un mio amico tentava il test per la USC e quindi anche io lo feci con lui e lo passai, quindi mi potevo iscrivere all’università, ma non sapevo cosa fare? Scelsi fotografia, solo quando iniziai scoprii che era il dipartimento di cinema in realtà. Io non sapevo nemmeno che si andasse all’università per fare film. In quei tempi ci saranno state una dozzina di scuole di cinema in tutto il paese. In quegli anni mi innamorai del cinema. Io vengo da una comunità rurale, da noi non arrivavano i film stranieri, solo film di serie A e di serie B. Dovevo andare a San Francisco per vedere il cinema di avanguardia. I miei primi art films non avevano davvero un perché, non c’erano storie, erano film sulle emozioni, che era quello che mi interessava. Avevo anche buon successo ai festival di film studenteschi, non facevo che vincere premi. Feci Look at life, che era animato, e THX 1138 un altro di questi, un corto di 25 minuti. Quello mi fruttò una borsa di studio e mi fece incontrare Francis Ford Coppola. Avevamo la stessa idea, non volevamo fare film hollywoodiani, eppure ci incontrammo alla Warner. All’epoca volevo fare l’animazione perché era un campo che non sceglieva nessuno e alla Warner stava cambiando tutto, Jack Warner se ne andò il giorno che arrivai io. Io e Francis eravamo gli unici nelle maestranze con meno di 60 anni. Ho fatto l’assistente di Francis per tanti anni.
In quegli anni si creò un gruppo che cambiò il cinema americano, provando che si poteva essere indipendenti e fare comunque incassi. Era il vostro obiettivo?
No. Volevamo fare film e non soldi. Entrare nel movie business non era possibile, a meno che non conoscessi qualcuno. Non si poteva entrare negli studios. Quindi non pensavamo di farlo, anche perché non facevano che dirci questo, che non ne avremmo fatto uno. Ma eravamo tutti appassionati e ci bastava fare dei corti. Era un momento a Hollywood quello in cui le persone che avevano fondato gli studios stavano andando in pensione, quindi gli studios venivano comprati dalle corporation come Coca Cola o Gulf Western, che non avevano idea di come si facessero film. Quindi assunsero gente che sapeva farli e sostanzialmente prendevano ragazzini. E da che ci dicevano che era impossibile entrare a Hollywood… era diventato facilissimo.
Una volta, nel fare un film di Francis, con una troupe minuscola, di 12 persone, in Nebraska, giravamo in un capannone, Francis mi disse di rimanere con lui, scrivere un copione e magari lui avrebbe trovato come produrlo. Fu la cosa che mi fece fare il passaggio ad autore. Essendo l’assistente di Francis finimmo a fondare una compagnia insieme, American Zoetrope. Non volevamo stare a Los Angeles proprio, infatti la sede era a San Francisco. Questo ci diede la possibilità di fare quello che volevamo, e infatti THX 1138 non fece un centesimo. Non avevamo soldi per pagare i debiti. Francis decise allora di fare un film sugli italiani, perché pagavano bene (Il padrino). E allo stesso modo io cominciai a scrivere American Graffiti.
È vero che firmasti per quel film qui a Cannes quando presentavi THX?
Avevo girato tutti gli studios e nessuno lo voleva, ma al tempo la United Artists era il massimo, era potente e dava grande libertà. Anche loro mi avevano rifiutato. Allora con Walter e i pochi soldi che avevamo decidemmo di andare a Cannes, per accompagnare il film, pioveva tantissimo e il film lo davano in una sala minuscola. Non avevamo nemmeno i biglietti, entrammo di straforo, e solo pochi anni fa quando venni qui per un Guerre stellari, che mi chiesero “Perché non ti presentasti alla conferenza stampa che facemmo?”… ecco io non sapevo nemmeno che ce ne fossero.
American Graffiti aveva una corsa in auto pazzesca. E tu sei ossessionato dalla velocità, l’hai messa anche nello spazio, ma hai fatto anche un corto studentesco sulle corse. Ti ossessiona?
Al liceo ero ossessionato dalle auto, facevo anche delle corse in piccoli circuiti nei parcheggi. Avevo anche lavorato in un posto in cui si rimettevano in sesto le auto. Io pensavo che avrei lavorato in quel settore lì, però una settimana prima di finire il liceo ebbi un brutto incidente, capii che non ero un gran pilota, e non è una buona idea fare il pilota se non sai guidare molto bene. Per questo iniziai a fare il fotografo. Una volta scoperto il cinema pensavo di aver chiuso con le auto e le corse, anche se le ho sempre amate. Ho fatto anche delle celebrity races! Ci fu una volta un incidente che non riguardava me ma mise paura alla mia famiglia, ero un padre singole con tre bambini del resto.
So che ci hai messo molto a mettere a punto la storia di Guerre Stellari. Quando è stato il momento in cui hai capito che era tutto giusto?
Francis stava girando Il padrino, ed era un periodo durissimo per lui perché lo studio voleva distruggere il film e lui non faceva che lottare. Inoltre sua moglie era incinta. E una mattina mi entrò in camera dicendo “Il bambino sta per nascere”, era il giorno del mio compleanno. Ma dovevo andare a Cannes. Qui cominciai a parlare di acquisire Flash Gordon e farne un film, non me lo volevano dare ovviamente… “Lo daremo a Fellini” dicevano. Capii che volevo farmi il mio Flash Gordon. Volevo una cosa tipo cani alieni che viaggiano in astronave, qualcosa di matto. Intanto cercavo di spingere American Graffiti, che non voleva nessuno. Era il momento di Easy Rider e il suo successo, tutti pensavano che ci fosse un pubblico di ragazzi da conquistare ma non sapevano come fare, quindi c’era uno spazio e alla fine Universal decise di appoggiare American Graffiti. La proiezione di anteprima andò benissimo, al pubblico piacque tantissimo, era fantastico. Quindi il capo dello studio venne da me e mi disse: “Dovresti vergognarti, non ha la qualità giusta per essere mostrato a un pubblico” perché era una copia lavoro. Volevano buttarlo, e dovemmo (io e Francis) lottare per tenerlo in vita. Alla fine tagliarono 5 minuti, l’unica scena in cui Ron Howard teneva testa ai professori, e pensarono di mandarlo in televisione perché lo giudicavano scarso e di cattiva qualità. Riuscimmo però a organizzare un’altra anteprima, stavolta alla Universal con tutte le persone che lavoravano alla Universal. E anche lì il pubblico impazzì per il film. Anche quelli del marketing lo videro, e anche a loro piacque da impazzire! Finalmente quelli del marketing andarono alla produzione, da Lew Wasserman, per consigliargli di mandarlo in sala. Era un film a budget minuscolo, quindi lo misero in sala nel mese peggiore (all’epoca), ad agosto, un cimitero per i film, in soli 50 cinema. “Siine contento,” mi dissero. Fece 25 milioni di dollari in un weekend, una cifra immensa. Rimase in sala un anno facendo più di 100 milioni di dollari. Per fortuna lo vide anche una delle produttrici della 20th Century Fox e mi disse “Voglio fare qualsiasi altro film tu voglia fare, hai altri film?” e le proposi un film di fantascienza con cani che guidano astronavi. Mi rispose: “Lo faremo” e mi assunsero. Quella persona e poi il capo del marketing erano gli unici ad avere fiducia nel film. Quando lo mostrai al board of directors mi dissero che lo odiavano, provarono a venderlo e non riuscendoci lo dovettero distribuire, sempre in poche sale. E come per American Graffiti al pubblico piacque e passò così dai 32 cinema iniziali a più di 100 che era una cosa mai sentita all’epoca. Questo è per dire che nessuno di questi film che feci per gli studios erano accettati dagli studios. All’epoca solo le megastar avevano una fetta degli incassi totali come parte della loro paga, quelli come me prendevano una parte del netto, e il netto era praticamente niente. American Graffiti fu credo l’unico film all’epoca che fruttò dei soldi con il netto. Tuttavia avevo fatto il contratto con la 20th Century Fox prima del successo di American Graffiti e pretesi di riscrivermelo, mettendoci per la prima volta la clausola per il licensing. Lo feci perché pensavo di fare magliette di Guerre Stellari e andare a venderla ai parchi o alle convention come forma di promozione. Andammo alle convention di Star Trek, al Comic-con per piazzarle. Tutto per conto nostro, e siccome lo studio non stava facendo promozione, visto che non credeva nel film, non capivano come mai ci fosse tutto questo pubblico. Ma non solo, misi nel contratto che volevo il sequel, avevo già scritto praticamente tutto, era troppo lungo, quindi feci il primo film come il primo atto e sapevo che avrei fatto un sequel, quindi per evitare che mi facessero storie e non sviluppassero il sequel comprai i diritti. Che è una cosa che non consiglio a nessuno di fare, perché non conviene praticamente mai.
Quello fu il contratto del secolo. Ma ora non si potrebbe mai fare, nessuno metterebbe dei soldi non essendo una proprietà intellettuale. Cosa farebbe il George Lucas dell’epoca per riuscire a farlo lo stesso oggi?
Ripeto, all’epoca non c’era un reparto licensing e i diritti del sequel non li volevano perché il film gli faceva schifo. Ma anche per American Graffiti proposi alla Universal, invece di comprare le canzoni, di comprare i diritti per fare una compilation (non costava molto di più), non lo vollero e alla fine spesero milioni (dopo il successo del film) per fare la compilation. Insomma all’epoca gli studios non capivano bene il business, oggi invece con lo streaming c’è stato un momento in cui davano soldi a chiunque, anche le idee più assurde, un momento che è finito. Però il segreto che dovrebbe uscire da tutta questa storia è persistere. Spingere, spingere, spingere senza arrendersi, perché credevo nel film, non mi importavano gli accordi, volevo fare il film, avrei pagato per fare film e speravo che nessuno scoprisse che l’avrei fatto anche gratis.
Quando Cameron girò Titanic e sforò il budget, rinunciò alla sua percentuale sugli incassi per poter andare avanti (praticamente investì nel film) e fare il film come diceva. Era una follia ma lui voleva fare il film. Il segreto quando sei in mezzo alle riprese e sei nei guai, sei andato fuori budget… ti deve rimanere da girare l’inizio, questo li obbliga a darti del tempo.
Iniziai a sperimentare con la tecnologia digitale, cioè a costruire una catena di lavoro con il digitale per fare film in digitale, perché mi ero reso conto che molto dei film non veniva terminato come il regista avrebbe voluto. Per questo decisi di cambiare il modo in cui venivano prodotti. Erano piccole cose, tantissime piccole cose.
Molti fan di Guerre Stellari tengono VHS o Laser disc degli originali, li farai mai uscire nei nuovi formati?
Il problema è che la vecchia versione ha una qualità terribile, per le nuove versioni le dovemmo restaurare (e già che c’ero aggiunsi tutto quello che ebbi la possibilità di fare). Se vedi i Laser disc sono terribili. Solo per fare la rimasterizzazione di ogni film spendemmo 6 milioni di dollari, che non è poco! Riuscii a farlo la prima volta perché stavo sperimentando con il digitale. E poi credo che il regista debba fare in modo che il film sia come lo vuole lui, una cosa che esiste dai tempi di Michelangelo, che poteva lavorare mesi a un’opera e poi guardarla e volerla rifare da capo. E se lui ha rifatto parti della Cappella Sistina, io penso di poter rifare Guerre Stellari.
Ho visto il primo film da ragazzino e quando partiva la musica mi esaltavo. Come reagisti tu la prima volta al sentire il tema di John Williams?
Stavo parlando con Steve [Spielberg ndr] di come fosse un film nello stile di quelli degli anni ’30, in cui usavano musica classica, gli dissi che mi sarebbe piaciuto farlo tipo Pierino e il lupo, cioè con un tema per ogni personaggio e con una grande orchestra, proprio come negli anni ’30. Steve mi disse “Quindi ti serve John Williams” che all’epoca era noto per le composizioni jazz ma Steven sapeva che era un gran compositore classico. E quando andai agli studi di Abbey Road in Inghilterra a sentire il tema con tutta l’orchestra completa fu per me un impatto che penso sia lo stesso che ha avuto ogni altra persona nel vedere il film. Poi credo che il sonoro sia il 50% del film e costa il 25% di tutto il film, nonostante questo la gente ci investe pochissimo tempo e lascia quel lavoro per ultimo. Per me li ha sempre missati Walter [Murch ndr] fin dai tempi in cui lavoravo con Francis, e per questo sono dei bei film perché c’è stata una grande attenzione alla soundtrack.
Come ti spieghi il fenomeno Guerre Stellari?
Prima di Guerre stellari io dovevo fare Apocalypse Now! e poi non lo feci, se lo avessi fatto io sarebbe stato Il dr. Stranamore, l’avrei fatto con umorismo e qualcosa ancora c’è di quelle idee (tutta la parte di surf) in cima all’incredibile scrittura machista di John Milius. Francis invece ha calmierato quella parte perché lui adorava Cuore di tenebra. Quindi feci una cosa durante la guerra in Vietnam, quando la gente veniva mandata lì e tornava dentro alle bare, per dei bambini di 12 anni. Era un periodo duro e oscuro e ci dicemmo che se American Graffiti era andato così bene con i ragazzi, potevo farne uno per ragazzi ancora più piccoli, quelli in età da pubertà che non sanno che fare e dove andare, e tutta quella roba c’è in Guerre Stellari, del resto chi l’ha amato alla follia sono i ragazzi tra i 10 e i 12 anni. Quando feci i prequel il primo fu un disastro, uscì all’inizio dell’era di internet, avevo passato 10 anni a sviluppare la tecnologia digitale per fare quella trilogia prequel (sapevo ci sarebbero state scene come la battaglia con Yoda e non si poteva fare con dei pupazzi), e i critici e i fan che avevano 10 anni all’epoca del primo film lo odiarono perché “È un film per bambini!” dicevano di Jar Jar Binks le stesse cose che si dissero all’epoca di C3-PO o degli Ewoks. Ogni volta la stessa critica: “Ma è un film per bambini!” …È sempre stato un film per bambini. Io sono sorpreso del fatto che persone tra i 5 ai 90 l’abbiano amato, e in tutto il mondo. Quella è la cosa strana. C’è anche chi dice che sono tutti bianchi, che poi non è vero, ci sono tanti alieni e tutti sono uguali, tutti tranne i robot. E questo spiega come c’è sempre qualcuno di cui le persone non si fidano e ora è lo stesso con l’intelligenza artificiale. La gente non si fida dei robot. Io volevo che le persone realizzassero che tutti sono uguali a prescindere da dove vengono.
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