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Il disagio degli adolescenti interpella noi adulti e ci dice cosa vogliono davvero i ragazzi



Marco frequenta la scuola a singhiozzo; sta assente almeno un giorno a settimana, senza motivo. Lucrezia a scuola va sempre, con ottimi risultati, però dice di stare talmente male da infliggersi profondi tagli sulle braccia. Andrea ogni volta che prende la metropolitana per andare all'università sente accelerare il battito cardiaco ed è angosciato dal morire di infarto, pur godendo di ottimo saluto e praticando sport assiduamente. Anna non ha amicizie con i compagni di scuola, ma ogni sera si sente con un amico che vive a milleduecento chilometri di distanza e probabilmente non incontrerà mai. Chi sta a contatto con gli adolescenti sa che queste non sono situazioni limite assolutamente eccezionali, ma si riscontrano con frequenza in ogni classe di scuola superiore e in ogni aggregazione di giovani. Gli adulti spesso non capiscono: servono per riconoscere che ci troviamo di fronte ad un sommovimento generazionale. A un fenomeno che interpella gli adulti non solo nella ricerca delle soluzioni, ma nell'individuazione delle cause.

C'è un disagio fisiologico, naturale, che colpisce gli adolescenti di oggi come quelli di ieri. È il malessere che nasce dal non essere più bambini ma non ancora adulti, è lo squilibrio tra un corpo che matura in fretta e una mente che richiede tempi più lunghi. Mamma oggi i numeri delle ricerche e i racconti dei testimoni ci parlano di un disagio più radicale, crescente in termini quantitativi e che richiede interventi maggiori che nel passato. I servizi pubblici di primo soccorso e di cura sono oberati, le scuole e le altre agenzie educative si confrontano con situazioni nuove e più difficili. I genitori sono spesso incapaci di capire e sovrastati da un senso di impotenza. Ansia, fobie, frequenza scolastica a singhiozzo, autolesionismo, disturbi alimentari, pensieri suicidari, solitudine, vuoto esistenziale e relazionale: sono le diverse forme con cui si esprime la mancanza di senso sofferta da chi sta crescendo.

Gli adulti sono interpellati, non solo nella ricerca della cura, ma nella comprensione delle cause. Perché penso a questo disagio come all'altra faccia della società in cui viviamo, il suo lato oscuro: individualista, incentrato sulla realizzazione di sé, sulla soddisfazione dei bisogni, sulle prestazioni, quelle che sole possono garantire un posto sul palcoscenico ed esporre al plauso degli altri. Non c'è nulla di male nell'ambizione e nella realizzazione personale, purché non diventi una competizione continua, che esaspera l'individualità a scapito della socialità e delle relazioni vere. Non basta conoscere tanta gente, occorre volere davvero bene agli amici, accettandoli anche quando non sono come li vorremmo.

Se un maschio attacca i ragazzi oggi, forse ha le sue origini in un'idea di sé ipertrofica, in una esaltazione del proprio mondo interno, a scapito del contatto con la realtà, che è costituita dagli altri. Più ci si chiude in se stessi, e più si è a rischio di depressione, di vuoto affettivo ed esistenziale, di mancanza di progettualità per il futuro. I ragazzi vivono in una società narcisista, che ha come risvolto la depressione. Qualcuno dice la depressione è la patologia di chi è logorato da se stesso e non riconosce l'altro come portatore di una diversità che spinge a uscire da se stessi. Si sta male perché si cerca solo quello che conferma i propri pensieri, le proprie attese, le proprie paure, come avviene sui social. Si sta male perché si viene continuamente rinforzati nella propria rabbia e nella propria ambizione e chi vive o pensa in modo diverso viene considerato un nemico.

Il lockdown ha accelerato queste dinamiche, con le chiusure e l'enfasi sulla relazionalità dimezzata offerta dall'online. Ma ha anche indicato una via: le persone che cantavano dai balconi l'inno nazionale o che si facevano vaccinare, pur affrontandone i rischi, per il bene comune, cercavano di salvare un senso del noi, una dimensione comunitaria che è presto svanita. Ma anche il disagio dei ragazzi ci indica una strada: la loro sofferenza esprime in modo latente una ricerca di qualcosa che non c'è, o è male indirizzato. Se ci sintonizziamo con loro, saranno loro a guidarci: vogliono un mondo più sano, vogliono una conoscenza che dia senso alla vita, vogliono nutrire una speranza nella grande incertezza che ci attanaglia. Noi possiamo rispondere, sostenereli a capire che non ci si salva mai da soli, ma sempre con gli altri.

Se vogliamo che i ragazzi stiano un po' meglio, dobbiamo lavorare molto: per costruire luoghi di relazione dove sia possibile conoscere chi è lontano, per apprezzarlo e farsi conoscere da lui. Per proporre una conoscenza concreta dell'amore: le coppie sono fragili quando ciascuno vede nell'altro un modo per stare bene, e non è in grado di volere il suo bene, talvolta anche a scapito del proprio. Per imparare a costruire relazioni basate sull'ascolto e sulla disponibilità, sul “fare” il bene comune, e non solo proclamarlo a parole.





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