News

I santi sono già tra noi



Il cardinale Gianfranco Ravasi.

Che cos’hanno da dire i santi di ieri al mondo contemporaneo? 60 colori della Grazia, edito da Ares, risponde a questa domanda attraverso un viag­gio tra le biografie (note e meno note) di donne e uomini che hanno seguito Dio. 60 medaglioni scritti da Antonio Tarallo per L’Osser­vatore Romano nei quali viene evidenziata soprattutto l’umanità dei santi: persone dotate di “sfumature”, peculiarità, nel vivere e comunicare il Vangelo; persone assolutamente normali, proprio come noi. Non si tratta di una sequela di “santini”, ma di racconti brevi da cui emergono ritratti molto vicini alla nostra quotidianità. Per gentile concessione dell’editore, pubblichiamo la prefazione del cardinale Gianfranco Ravasi, biblista, teologo, ebraista, presidente emerito del Pontificio della Cultura e del Dialogo e della Pontificia Commissioen di Archeologia Sacra.

di Gianfranco Ravasi

 

In quella grandiosa omelia neotestamentaria che è la Lettera agli Ebrei c’è una suggestiva immagine della comunità dei giusti: «Siamo circondati da una nube di testimoni» della fede (12, 1). Il termine greco usato, néphos, rimanda anche a un «nugolo», ossia a una moltitudine fitta di persone, ma suggestivo è il significato primario: come la nuvola, composta di tante gocce d’acqua, può essere illuminata dal sole e divenire dorata, così i testimoni, in greco mártyres, riflettono e brillano dei colori della luce divina.

In quest’opera Antonio Tarallo ci porta a contemplare la luce dei santi: ha voluto anche lui allestire una raccolta di tanti volti di testimoni della fede, aureolati di una luminosità spirituale, ma quasi dipingendoli anche nei loro profili storici con una ricchezza di lineamenti. Ha creato, così, una vera e propria galleria di ritratti luminosi che comprendono decine di figure note, ma anche presenze più modeste e nascoste. Sono uomini e donne che appartengono a epoche diverse e hanno biografie differenti: si va, infatti, dall’antichità cristiana, come con san Girolamo, Cirillo di Gerusalemme, Antonio abate e le sante Lucia e Prassede, e si approda a personaggi del nostro presente come Giuseppina Bakhita, Teresa di Calcutta o il beato Giuseppe Puglisi.

Accanto a protagonisti nell’azione pastorale caritativa come Camillo de Lellis, Giovanni Bosco, don Orione, don Gnocchi, don Guanella, don Calabria, Riccardo Pampuri e così via, si levano le figure mistiche di Chiara d’Assisi, Angela da Foligno, Gemma Galgani, Teresa Benedetta della Croce, quest’ultima segnata anche dal martirio. Ai grandi papi come Leone Magno e Gregorio Magno o Giovanni Paolo II si associano i tre pastorelli di Fatima e Maria Goretti. Il lettore procederà in questa sequenza di decine e decine di ritratti quasi come un pellegrino che contempla la luce divina che li avvolge e che si rifrange nei molteplici colori delle loro esistenze e delle loro vicende, dei messaggi e delle opere compiute.

Prima che il lettore si avvii all’interno di questa galleria agiografica, vorremmo dedicare una riflessione generale al tema stesso della santità. C’è in uno scritto del famoso scrittore agnostico francese Albert Camus (1913-1960) una frase piuttosto sorprendente: «Possiamo essere santi senza Dio? È il solo problema concreto che oggi conosca». A questa domanda la teologia non ha dubbi nel rispondere negativamente, anche nel caso della santità “laica”, cioè della giustizia piena della persona non credente. E questo perché in un ideale ritratto del santo il primo, indispensabile lineamento è quello della grazia divina. Se, infatti, la figura santa altro non è che il fedele nella sua pienezza, è indiscutibile che debba valere sempre la legge fondamentale della grazia e della fede, cioè del dono divino e dell’accoglienza esistenziale umana che è la radice della “giustificazione”, cioè dell’essere giusti, fedeli e santi. È ciò che san Paolo ci ha insegnato nelle più ardenti e significative pagine del suo epistolario.

Ed è proprio la via di Damasco, quell’«essere afferrati» da Cristo – come l’Apostolo stesso confesserà ai Filippesi (3, 12) – a costituire la svolta dal peccato alla santità. Una svolta segnata dall’irruzione divina nella storia personale dell’uomo. Essa non accade necessariamente con un’epifania clamorosa che ti disarciona e ti acceca, perché essa è spesso affidata alla semplice quotidianità. Anzi, la grazia attraversa la strada persino di chi sta andando lontano da Dio. Alla domanda di Camus aveva implicitamente già risposto lo stesso Paolo, quando citando un passo di Isaia, dichiarava: «Isaia arriva fino al punto di affermare: “Mi sono fatto trovare (dice il Signore) anche da quelli che non mi cercavano, mi sono rivelato anche a quelli che non si rivolgevano a me”» (Romani 10, 20).

In questa linea si riesce a comprendere un’altra strana domanda, quella che viene indirizzata al Cristo giudice da parte dei “santi” raffigurati nella tavola del giudizio finale del capitolo 25 del Vangelo di Matteo: «Quando mai, Signore, ti abbiamo veduto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, assetato e ti abbiamo dato da bere, forestiero e ti abbiamo ospitato, nudo e ti abbiamo vestito, ammalato o in carcere e ti abbiamo visitato?». Si può anche non riconoscere Dio nel povero che si aiuta, si può anche agire personalmente senza ragioni “trascendenti”, ma Dio è all’opera in quella creatura generosa ed essa, pur senza riconoscerlo, aderisce al fremito della grazia ed è, perciò, una persona “credente”, giusta e santa, nonostante il suo ateismo o la sua personale convinzione negativa.

Ma al di là di un simile caso limite – che è sostanzialmente quello del «cristiano anonimo» e «malgrado sé stesso» disegnato dal famoso teologo tedesco del secolo scorso Karl Rahner – è ovvio che anche per il santo “esplicito” il primato della grazia permane. In principio a ogni via di santità c’è Dio, c’è la sua eudokìa, cioè la sua “buona volontà” e non la nostra: ricordiamo il vero senso di quel «pace in terra agli uomini della buona volontà (divina)», cioè agli uomini che Dio ama (Luca 2, 14). Lapidario sarà Pascal nei suoi Pensieri: «Per fare di un uomo un santo occorre solo la grazia. Chi dubita di questo non sa cosa sia un santo né cosa sia un uomo». Il volontarismo personale non riesce da solo a creare santi.

Affermato questo, è però altrettanto necessario ribadire anche il rovescio della medaglia. La grazia non è destinata a una stella o a una pietra ma alla creatura umana, libera e cosciente, che viene interpellata per una risposta. Alla mano di Dio che per prima si stende per attirare a sé la sua creatura deve corrispondere la mano dell’uomo che si aggrappa e si affida al suo Signore. Grazia divina e fede umana, dono e adesione vitale devono essere in contrappunto.

Di questo versante umano vorremmo sottolineare un aspetto ideale particolare che si vedrà anche nei vari ritratti di santi offerti dal volume di Tarallo. Ogni santo risponde a Dio con la sua identità personale, col suo temperamento, coi limiti della sua creaturalità. Con i suoi colori propri e le sfumature che rendono unica la sua persona, la sua vita nella grazia.  I santi non sono così sublimi e “aureolati” da risultare distanti e intoccabili, come ha voluto una certa iconografia. Essi sono di ogni «nazione, razza, popolo e lingua» (Apocalisse 7, 9), e anche incarnano tutte le tipologie umane, senza escludere quella del peccatore che si converte.

In questa dimensione personale ha rilievo l’impegno morale, si configurano le opere sante, si percorre la strada dell’ascesi. A questo proposito ci pare significativo quanto ha scritto il filosofo Salvatore Natoli: «L’ascesi non è affatto rinuncia, è abilità. Guardate l’acrobata: volteggia, domina lo spazio, vince la gravità. Tutto sembra semplice. Quanta fatica! Ma si è fatta bellezza». In greco àskesis – donde il nostro termine “ascesi” – significa appunto “esercizio, pratica” e non “rinuncia”. Il santo è esigente ma non cupo, è severo ma non aspro, è impegnato radicalmente ma non è masochista. In sintesi, potremmo dire che i santi sono persone come noi, ma l’amore li spinge più di noi.

Vorremmo a questo punto aggiungere un ultimo lineamento del volto ideale del santo. Lo identifichiamo risalendo alla parola stessa italiana che designa la santità. Essa deriva dal latino sanctus che, a sua volta, si basa sul verbo sancire: il rimando è a una categoria importante nella Bibbia e in tutte le culture, quella del sacro. Si tratta dell’area divina, inviolabile, sottoposta appunto a “sanzioni” in caso di trasgressione. Certo, il santo è nell’orizzonte invalicabile di Dio, è nella pienezza di luce che non conosce striature di tenebra. Tuttavia, non è isolato e racchiuso nel bozzolo d’oro della sua aureola. Si ricordi, infatti, che uno degli articoli di fede del Credo è «la comunione dei santi». Una comunione che si irradia anche fuori del loro “coro” celeste e raggiunge noi che siamo pellegrini sulla terra. Alla domanda di una consorella che chiedeva a Teresa di Lisieux morente: «Ci guarderete dall’alto del Cielo, non è vero?», la santa rispose: «No, scenderò».

La vera santità non è isolazionismo ma esempio e presenza. Non è la celebrazione dell’eroismo impossibile ma lo stimolo a raggiungere la vetta aperta a tutti. Anche quando è racchiuso in un monastero posto in cima a un monte o è isolato nel deserto egiziano, il santo vuole diramare la sua luce, vuole fecondare l’aridità del mondo, vuole testimoniare e condividere la sua gioia e il suo amore. Sono proprio le differenti componenti della santità finora descritte che il lettore scoprirà attraverso le storie dei vari «testimoni» che compongono la «nube» dei protagonisti delle pagine che seguiranno.

La copertina del libro di Antonio Tarallo "60 colori della Grazia" (Edizioni Ares)


La copertina del libro di Antonio Tarallo “60 colori della Grazia” (Edizioni Ares)



Ma al di là di un simile caso limite – che è sostanzialmente quello del «cristiano anonimo» e «malgrado sé stesso» disegnato dal famoso teologo tedesco del secolo scorso Karl Rahner – è ovvio che anche per il santo “esplicito” il primato della grazia permane. In principio a ogni via di santità c’è Dio, c’è la sua eudokìa, cioè la sua “buona volontà” e non la nostra: ricordiamo il vero senso di quel «pace in terra agli uomini della buona volontà (divina)», cioè agli uomini che Dio ama (Luca 2, 14). Lapidario sarà Pascal nei suoi Pensieri: «Per fare di un uomo un santo occorre solo la grazia. Chi dubita di questo non sa cosa sia un santo né cosa sia un uomo». Il volontarismo personale non riesce da solo a creare santi.

Affermato questo, è però altrettanto necessario ribadire anche il rovescio della medaglia. La grazia non è destinata a una stella o a una pietra ma alla creatura umana, libera e cosciente, che viene interpellata per una risposta. Alla mano di Dio che per prima si stende per attirare a sé la sua creatura deve corrispondere la mano dell’uomo che si aggrappa e si affida al suo Signore. Grazia divina e fede umana, dono e adesione vitale devono essere in contrappunto.

Di questo versante umano vorremmo sottolineare un aspetto ideale particolare che si vedrà anche nei vari ritratti di santi offerti dal volume di Tarallo. Ogni santo risponde a Dio con la sua identità personale, col suo temperamento, coi limiti della sua creaturalità. Con i suoi colori propri e le sfumature che rendono unica la sua persona, la sua vita nella grazia.  I santi non sono così sublimi e “aureolati” da risultare distanti e intoccabili, come ha voluto una certa iconografia. Essi sono di ogni «nazione, razza, popolo e lingua» (Apocalisse 7, 9), e anche incarnano tutte le tipologie umane, senza escludere quella del peccatore che si converte.

In questa dimensione personale ha rilievo l’impegno morale, si configurano le opere sante, si percorre la strada dell’ascesi. A questo proposito ci pare significativo quanto ha scritto il filosofo Salvatore Natoli: «L’ascesi non è affatto rinuncia, è abilità. Guardate l’acrobata: volteggia, domina lo spazio, vince la gravità. Tutto sembra semplice. Quanta fatica! Ma si è fatta bellezza». In greco àskesis – donde il nostro termine “ascesi” – significa appunto “esercizio, pratica” e non “rinuncia”. Il santo è esigente ma non cupo, è severo ma non aspro, è impegnato radicalmente ma non è masochista. In sintesi, potremmo dire che i santi sono persone come noi, ma l’amore li spinge più di noi.

Vorremmo a questo punto aggiungere un ultimo lineamento del volto ideale del santo. Lo identifichiamo risalendo alla parola stessa italiana che designa la santità. Essa deriva dal latino sanctus che, a sua volta, si basa sul verbo sancire: il rimando è a una categoria importante nella Bibbia e in tutte le culture, quella del sacro. Si tratta dell’area divina, inviolabile, sottoposta appunto a “sanzioni” in caso di trasgressione. Certo, il santo è nell’orizzonte invalicabile di Dio, è nella pienezza di luce che non conosce striature di tenebra. Tuttavia, non è isolato e racchiuso nel bozzolo d’oro della sua aureola. Si ricordi, infatti, che uno degli articoli di fede del Credo è «la comunione dei santi». Una comunione che si irradia anche fuori del loro “coro” celeste e raggiunge noi che siamo pellegrini sulla terra. Alla domanda di una consorella che chiedeva a Teresa di Lisieux morente: «Ci guarderete dall’alto del Cielo, non è vero?», la santa rispose: «No, scenderò».

La vera santità non è isolazionismo ma esempio e presenza. Non è la celebrazione dell’eroismo impossibile ma lo stimolo a raggiungere la vetta aperta a tutti. Anche quando è racchiuso in un monastero posto in cima a un monte o è isolato nel deserto egiziano, il santo vuole diramare la sua luce, vuole fecondare l’aridità del mondo, vuole testimoniare e condividere la sua gioia e il suo amore. Sono proprio le differenti componenti della santità finora descritte che il lettore scoprirà attraverso le storie dei vari «testimoni» che compongono la «nube» dei protagonisti delle pagine che seguiranno.





Source link

Leave a Reply

Your email address will not be published. Required fields are marked *