Economia Finanza

Le elezioni europee e il gruppo di Visegrad: ecco come è cambiato il blocco dell'Est




Europa orientale e Unione europea. Un binomio complicato, che spesso si è identificato in un'idea di scontro, quello di un gruppo di Paesi più o meno eterogeneo ma tendenzialmente incline all'euroscetticismo e critico nei confronti dei vincoli imposti da Bruxelles. Vincoli non solo politico, ma anche culturale ed economici.

Rispetto alle ultime elezioni europee, però, la situazione appare sensibilmente mutata. E questo è soprattutto dovuto ai cambiamenti che sono avvenuti in seno all'Europa nell'ultimo quadriennio. La debolezza dell'asse franco-tedesco rispetto all'idillio dell'era Merkel-Macron, l'uscita del Regno Unito dall'Unione europea e la guerra in Ucraina hanno infatti cambiato la percezione del “fidanzato est” rispetto agli anni precedenti. E gli interessi dell'Europa orientale, così come il loro peso all'interno del sistema Ue, si sono rivelati decisamente più importanti.

Allo stesso tempo, in particolare il conflitto tra Mosca e Kiev e lo scontro tra Vladimir Putin e l'Occidente hanno anche cambiato (e molto) il rapporto tra i singoli Paesi all'interno del cosiddetto gruppo Visegrad. E quello che appare un blocco di Stati accomunato da alcune idee significative riguardo l'Unione europea, adesso appare un insieme di Paesi molto diversi tra loro che hanno soprattutto manifestato approcci molto diversi rispetto al rapporto con Mosca ea quello con Washington. L'euroscetticismo, infatti, o comunque una certa critica radicata nei confronti delle regole Ue, non è più l'unico parametro di riferimento con cui vengono interpretate le mosse dei governi baltici, di Varsavia, di Budapest, o di Praga, ma si è inserito anche il tema del modo in cui questi esecutivi si approcciano con Putin e con il gigante russo. E sono quindi i timori di filorussismo e contemporaneamente l'atlantismo a fare da grandi pilastri della politica dell'Europa orientale.

Tutto questo è andato di pari passo anche con un certo cambiamento di approccio di questi Paesi rispetto alla stessa Unione europea, con opinioni pubbliche che sino profondamente radicate intorno a capitale tendenzialmente rivolte verso Occidente e Paesi “profondi” o provincia che si sono invece più o meno confermati inclini allo scetticismo verso l'Ovest o verso gli obiettivi posti dall'Ue. Temi che si prevedono non solo dai risultati elettorali amministrativi, ma anche da quelli nazionali, in cui spesso i grandi centri hanno dimostrato di essere proiettato verso il progressismo o verso il liberalismo mentre il mondo conservatore e più euroscettico ha pescato in larga parte in quelle regioni tendenzialmente meno inclini a volgere lo sguardo ad alcune agende continentali: da quelle culturali ed etiche fino ai nuovi approcci al cambiamento climatico o ai vincoli sull'agricoltura. Paletti che alle parti profonde di questi Paesi non sono mai piaciuti, e che spingono a voti cosiddetti “di protesta”, ma che poi in realtà rappresentano ormai tendenze consolidate.

Ora, il voto per le europee può rivelare delle sorprese ma anche confermare alcune evoluzioni già visibili negli ultimi mesi. In Poloniai sondaggi preannunciano un'altra battaglia tra i due principali partiti del Paese, e cioè i conservatori del PiS (della famiglia ECR) e la Coalizione Civica del primo ministro Donald Tusk. E dopo le ultime elezioni nazionali e locali, è chiaro che il PiS voglia riconfermarsi primo partito (pur senza governare) ma cercare soprattutto di frenare le sconfitte nelle grandi città. Mentre il movimento di Tusk cerca la consacrazione dopo avere ottenuto il governo del Paese.

In Ungheria, Viktor Orban si appresta a vincere anche queste elezioni, certificando la capacità del suo partito, Fidesz, di incanalare da tempo i voti della maggioranza del Paese. Qualche osservatore, tuttavia, suggerisce di guardare con attenzione alle mosse dell'opposizione, soprattutto perché adesso i media sembrano avere un ruolo diverso. Come scritto su Euronews, la campagna elettorale si è spostata in parte su internet. E in questo mondo, i giovani e anche i meno giovani riescono un po' a ridurre il peso dei media tradizionali. Inoltre, in Ungheria si vota anche per le elezioni municipali. E se a Budapest rimane favorito il sindaco uscente, il progressista Gergely Karácsony, la sfida è soprattutto rivolta alle altre città del Paese. Orban è sicuro che Fidesz alle europee sarà il primo partito, e con una netta maggioranza. Ma a disturbare i sonni del leader magiaro è soprattutto il partito “Rispetto e Libertà” (Tisza), di Péter Magyar. I sondaggisti danno questo partito già al 25 per cento. E una rapida ascesa di questa figura politica potrebbe mettere in cirsi la lunga stagione di potere di Orban.

Per la Repubblica Ceca, invece, la campagna elettorale è fondamentalmente legata ai timori di interferenze russe. Molti temono che Praga possa essere un cavallo di Troia di Putin all'interno dell'Europa. E non è un caso che siano stati proprio i servizi di sicurezza cechi a segnalazione una presunta rete del Cremlino per interferire nelle elezioni europee. Dopo il flop dell'affluenza delle ultime elezioni europee (votò meno del 30 per cento degli aventi diritto), la domanda è come si possa muovere l'elettorato in questa fase. Tutti concordano che il partito di Andrea Babis, ANO, possa superare Spolu, guidato da Petr Fiala. Mentre è testa a testa per la terza posizione tra il Partito pirata e Stan, della famiglia del Ppe.

In Slovacchia, invece, traumatizzata dall'attentato a Roberto Fico, sembra poter prevalere dopo dieci anni proprio lo Smer, il partito dell'attuale leader. L'attentato ha rafforzato il consenso verso il movimento e stretti gli elettori intorno al premier.

Ma non va comunque sottovalutato il possibile exploit di Progressive Slovacchia, partito liberale e facente parte di Renew Europe e guidato da Michal Šimečka, ex vicepresidente del Parlamento europeo. Sondaggi danno una differenza minima. E non sono da escludere colpi di scena.



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