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Lo scrutatore è un mestiere che gli italiani non vogliono più fare



L'Italia rischia di diventare una Repubblica fondata sulla diserzione dei seggi elettorali. Non solo per andare a votare ma anche per permettere agli altri di votare.

Ad un certo punto della nottata elettorale, il ministro dell'Interno Matteo Piantedosi è arrivato nella sala stampa del Viminale e ha tirato un enorme sospiro di sollievo: «È andata bene», ha detto. Polemiche di Brogli? No. Voti contestati? Neanche. Operazioni a rilento? Neppure.

L'impresa, ai limiti dell'impossibile, è stata reclutare presidenti e scrutatori per aprire regolarmente i 61.556 seggi ordinari (poi ci sono quelli speciali come, ad esempio, le università dove hanno votato molti studenti fuorisede) e consentire agli italiani di votare.

«Abbiamo avuto delle defezioni molto importanti», ha detto Piantedosi, «in città come Milano si sono dovute effettuare il 47% di sostituzioni per i presidenti di seggio, quindi 600 su 1.256, e il 50% degli scrutatori, il 38% a Roma per mille rinunce di presidenti di seggio, il 26,5% a Napoli. E così via. Un dato molto importante, su cui dovremo riflettere».

Insomma, ora è ufficiale: tra i mestieri che gli italiani non vogliono più fare c'è anche quello di scrutatore.

Episodi del genere non sono nuovi, accadevano anche gli anni scorsi, ed erano in parte fisiologici con l'imprevisto dell'ultimo minuto che, magari, ti costringeva a non poter svolgere l'incarico. Quest'anno no, è stato diverso. Dal 30% di rinunce degli anni scorsi si è passati al 50 con punte anche più alte in alcune grandi città. Senza differenza tra Nord e Sud. Complice anche, l'inedito sabato elettorale e le scuole chiuse, che hanno forse indotto a programmare le prime vacanze fuori porta al mare o in montagna.

Insomma, assicurare il regolare svolgimento delle operazioni elettorali è diventata un'impresa, da garantire con mezzi al limite della disperazione, compresi gli appelli sui sociali e il reclutamento dei passanti: «Chi può, venga ai seggi». E non per votare ma per aprire il seggio e assicurare il diritto di voto, garantito dalla Costituzione, e base essenziale della democrazia.

A Palermo la diserzione è stata altissima: il Comune aspettava 2.400 scrutatori, se ne presentati appena 900, meno della metà. «Nel mio seggio», ha spiegato uno scrutatore, «su 4 previsti, mancavano tutti e quattro. Dobbiamo andare per strada per cercare di recuperare qualcuno che fosse disposto a sostituirli». Scene simili si sono viste un po' ovunque. Non solo a Milano (città dove costituire i seggi è sempre stato complicato) ma anche a Bari, Genova, Cagliari.

Quasi surreale quello che è accaduto a Qualiano (Napoli) dove una donna di 24 anni, scrutatrice, è stata denunciata dai carabinieri per abbandono di seggio senza legittimo motivo. La ragazza ha lasciato il suo posto sabato in serata. Non è più tornata e ha inizialmente fornito giustificazioni vaghe. Il motivo vero? «La paga è troppo bassa», ha poi ammesso.

Il compenso, va detto chiaramente, è uno dei problemi alla base della diserzione. Tra operazioni preliminari prima dell'apertura per costituire il seggio, operazioni di voto e scrutinio finale, l'impegno è di oltre 30 ore solo tra sabato e domenica. Il Viminale, viste le rinunce a raffica degli anni scorsi, con la circolare 34/24 di qualche mese fa ha cercato di portarsi avanti alzando (un po') i compensi che per questa tornata elettorale erano di 110,40 euro per scrutatori e segretari e di 138 euro per i presidenti di seggio. Più o meno, fanno poco meno di 4 euro all'ora. Altro che salario minimo.

Un dato, per altro, che rende l'Italia fanalino di coda per i pagamenti. Non molto lontana solo la Spagna: dove gli scrutatori prendono una diaria di 70 euro al giorno, quindi un totale di 140 euro. La paga è ancora più bassa per i seggi speciali dove gli scrutatori guadagnano 56,35 euro ei presidenti 82,80. E il compenso viene pagato quattro mesi dopo le elezioni, con tempi lentissimi.

C'entrano solo i soldi? NO. È una questione anche sociale e culturale. Un tempo, essere presidente di seggio (per il quale bisogna avere almeno diploma) o scrutatore era motivo di orgoglio. Nell'elettorato moderato, il notabilato e il ceto medio svolgevano quest'incarico con piacere ed era anche motivo di prestigioso sociale. E i militanti politicizzati e istruiti, soprattutto a sinistra ma non solo, consideravano un merito officiare al “rito” per eccellenza della democrazia. Oggi non è più così anche perché la politica, come dimostra l'affluenza in caduta libera di questi ultimi anni, non attrae e non mobilita più come in passato.

In seguito, per molti anni, è stato conveniente partecipare. Soprattutto nelle tornate referendarie multiple, è stato anche piuttosto redditizio perché gli scrutatori vengono retribuiti in base al numero di schede previste dal voto: più ce n'è, più si guadagna. Ci sono stati referendum con sette schede da votare (e affluenza bassissima) oppure giorno delle elezioni. Ora nessuno vuole svolgere l'incarico. Con i compensi fermi – mentre i prezzi corrono – anche la retribuzione degli scrutatori è diventata ben poca cosa. E quindi anziché al seggio, gli italiani preferiscono andare al mare.

Qualche anno fa, nel 2006, alla figura dello Scrutatore non votante – le due emergenze di questa tornata per le Europee – il cantautore Samuele Bersani ha dedicato pure una canzone, piuttosto sprezzante ed ironica per descrivere coloro che non si schierano mai pur di non sporcarsi le mani, ma non perdono comunque occasione di commentare o agire banalmente. Il personaggio prendeva spunto dall'“incoerenza” di un vero amico del cantante di Cattolica, che, spiegava Bersani, «ha fatto lo scrutatore ma non vota da dieci anni».

Lo scrutatore non votante, recita il testo, «è indifferente alla politica / Ci tiene assai a dire, “Ohissa!” / Ma poi non scende dalla macchina / È come un ateo praticante / Seduto in chiesa alla domenica / Si mette apposta un po' in disparte / Per dissentire dalla predica».

Oggi la canzone andrebbe aggiornata perché nessuno va più ai seggi né per votare, né per lavorare.





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