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Paolo Ruffini: «Io, in scena con i miei attori disabili per ridere su noi stessi»



“Le porgo una rosa”. Inizia così l'intervista a Paolo Ruffini. La rosa in questione è, idealmente, quella dipinta da Franco Battiato, simbolo inconfondibile, fin dalla prima edizione, de La Milanesiana, la rassegna ideata e diretta da Elisabetta Sgarbi, che quest'anno ha come fil rouge la timidezza (ei suoi contrari). Un format itinerante che mette in dialogo più arti e che dal 20 maggio attraversa 25 città per concluderersi il 9 agosto a St. Moritz, in Svizzera, con ospiti di caratura internazionale. Per questa venticinquesima edizione la rosa vira verso sfumature più intime in omaggio alla timidezza quale tensione a un modo di vita e operare aperto all'ascolto e all'unicità dell'altro.

Lo spettacolo comico di Paolo Ruffini Sottosopra (Teatro San Rocco, Seregno, 21 giugno), fra gli appuntamenti in calendario, con attori affetti da sindrome di Down, racconta le relazioni umane, la bellezza di essere diversamente normali. Un lavoro più che sull'integrazione sulla contaminazione, sul fare incontro. “Up & Down, che ha già una storia consolidata di successo, affonda le sue radici in un progetto che nasce a Livorno trent'anni fa con la compagnia Mayor Von Frinzius, di cui fanno parte i miei ragazzi, e personalmente con me dieci anni fa. La compagnia livornese nasce dal regista Lamberto Giannini con l'idea che tutti quanti abbiamo un corpo, un'anima e possiamo fare gli attori, anche se non lo siamo. Quando vado a vedere i loro spettacoli ne resto estasiato”, racconta Ruffini. “Il teatro dei disabili è ancora confinato a dei circuiti off e purtroppo non è commerciale come il teatro che sono abituato a frequentare io. Così ho iniziato a fare spettacoli prendendo gli attori Down. All'inizio ho trovato resistenza: chi mi diceva che facevano tristezza, chi pensava che facessimo beneficenza. In realtà sono pagati come lo sono io. Il nostro è uno spettacolo comico, commerciale, parla della felicità. In giro per l'Italia ha riscosso successo tanto da diventare un progetto editoriale e una trasmissione televisiva in prima serata su Italia Uno”.

Da vincere, la timidezza dell'essere se stessi. “La prima cosa che ho imparato lavorando con questi attori è che devono sentirsi liberi di essere disabili, senza che la propria condizione si sostituisca all'identità. Essere se stesso è una carezza che uno si deve fare. Non chiamiamoli diversi: sono unici”, spiega.

Sull'empatia sociale verso i più fragili, commenta: “Sono stati fatti passi in avanti straordinari. La media di vita di chi ha la sindrome di Down se nel 1970 era di quarant'anni, oggi è di sessanta. C'è sempre un tema legato alla vergogna di un certo tipo di fragilità. Mi sono reso conto che, la maggior parte delle volte, questi ragazzi non fanno le cose perché nessuno gliele chiede. Vanno sfidati e, in questo, il teatro diventa un'opportunità reale. Il teatro non ci vuole tutti uguali, è un elemento sociale e non sociale, sulla diversità ci 'butta' un faro e quella diversità diventa risorsa. La comicità è l'elemento che ci pareggia, che ci unisce nello scherzo: non è ridere di, ma ridere con. Oggi in nome dell'inclusione si deve escludere qualcuno, e questo è un paradosso”.

Prima dello spettacolo dialogheranno Alberta Basaglia e Sara Chiappori, con introduzione di Elisabetta Sgarbi. L'occasione sono i cento anni dalla nascita dello psichiatra e neurologo Franco Basaglia, innovatore nel campo della salute mentale. A lui si deve la chiusura dei manicomi (legge 180) e la restituzione della dignità alla malattia mentale: il paziente non è più un oggetto da aggiustare ma una persona da accogliere, ascoltare e aiutare. “Franco Basaglia è attuale nella misura in cui le malattie psichiatriche stanno crescendo a dismisura. Ai suoi tempi l'Hikikomori, la sindrome di quei ragazzi che stanno chiusi in camera venti ore al giorno sul computer o sul cellulare, rifiutando rapporti sociali, non esisteva. Una lezione non solo attuale, ma anche urgente. Basaglia ha fatto una rivoluzione necessaria, che ha avuto degli strascichi che un certo tipo di gestione politica non ha saputo cogliere. La sua riflessione che “da vicino è normale” è condivisibile ed è un monitor per tutti noi. Quando operava Basaglia esistevano i manicomi pediatrici, un'omosessuale veniva curata con l'elettroshock. Tutto questo non accadeva nel 1300 ma cinquant'anni fa circa. Ancora oggi siamo un paese in cui ciò che non si vede non viene calcolato. Tendiamo a vivere la patologia come qualcosa di evidente, conclamato, invece la patologia mentale, psichiatrica o psicologica, tendiamo a nasconderla. Questo atteggiamento è modernissimo. È necessario avere una sensibilità anche per levarci quel retaggio culturale dei tempi dei nostri genitori, ossia che andare dallo psicologo significa essere matti”.

Perseverante, ostinato a rincorrere la felicità “anche se dovesse essere un momento effimero”. Timido? “Forse da bambino lo ero di più. Oggi ho una buona dose di spregiudicatezza. La timidezza non è un elemento necessario a chi fa il mio mestiere. Non è comunque detto che un comico non possa essere timido, così come non è detto che sia sempre simpatico”.

Chi sono i veri malati? “Sicuramente gli ingrati. Non accorgersi delle possibilità, dei vantaggi che abbiamo, al netto delle guerre che speriamo cessino, è grave. Siamo in un momento in cui possiamo permetterci il benessere di fermarci un attimo, mettere il cellulare in tasca e guardare le nuvole. Questa forma di ingratitudine ci rende tutti un po' schiavi, malati di noi”.





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