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Di fronte alla tragedia di Singh si è persa ogni umanità



Se Satnam Singh, il trentunenne di origine indiana rimasto coinvolto in un orrendo incidente sul lavoro nelle campagne di Latina fosse stato in regola e non un lavoratore invisibile, come i tanti “zombie” che popolano le nostre campagne raccogliendo pomodori, zucchine o frutta per 4 euro all'ora in nero, si sarebbe probabilmente salvato. Invece anziché portarlo in salvo lo hanno abbandonato come un cane davanti a casa con le gambe spezzate e il braccio mutilato da un macchinario avvolgi-nylon dentro una cassetta di frutta, accanto al corpo. Come dire: «Non è affar nostro, vedetevela voi». È morto dopo due giorni di agonia. Una fine vergognosa, atroce, orrenda.

«Qui non siamo solo di fronte a un grave incidente sul lavoro, cosa già di per sé allarmante ed evitabile, qui siamo davanti alla barbarie dello sfruttamento, che calpesta le vite delle persone, la dignità, la salute e ogni regola di civiltà», ha affermato Hardeep Kaur, segretaria generale Flai Cgil di Frosinone e Latina, che aveva giustamente reso noto l'episodio per primo.

La vicenda di Satnam – per la quale la premier Meloni ha parlato di inaccettabili barbarie – è un esempio di come lavoro, sicurezza, legalità, accoglienza e dignità si leghino indissolubilmente. Il presidente Mattarella non smette mai di richiamare gli italiani sul dramma collettivo delle morti bianche: «Ogni morte sul lavoro è inaccettabile», ha detto più volte proprio per ribadire che non esistono scuse o attenuanti su chi ha la responsabilità di gestire la sicurezza rispetto a chi perde la vita sul lavoro. «Si sentivano le urla della moglie che continuava a chiedere aiuto, poi abbiamo visto un ragazzo che lo teneva in braccio e lo ha portato dietro casa. Noi pensavamo lo stesse aiutando, ma poi è scappato via», hanno raccontato i due ragazzi che ospitavano Satnam Singh e sua moglie in un rustico dietro la loro abitazione.
Sfruttamento e insicurezza vanno di pari passo.

Quanti sono i Singh d'Italia? Secondo l'ultimo rapporto dell'Osservatorio Placido Rizzotto sono ben 834 le vicende di sfruttamento complessivamente individuate nel nostro Paese. Ci vorrebbero maggiori ispezioni, maggiori controlli e certamente un salario minimo da far rispettare da cui partire per evitare paghe da fame. Le leggi sulla sicurezza e contro il lavoro in nero ci sono, anche quelle contro il caporalato, il problema è che non si riesce a farle rispettare. Troppi imprenditori – soprattutto nel campo agricolo – le aggirano con facilità.

Non è difficile immaginare la vita di Singh e di tutti quelli come lui, proprio quando si celebra la giornata del rifugiato. L'Italia come terra di approdo. Per lui valgono le parole scritte da Tesfalid Tesfom, giovane migrante eritreo, naufragato al largo di Lampedusa e sepolto nel cimitero di Modica. Nel suo portafoglio c'erano delle poesie scritte durante il viaggio. Una recitava così: «Ora non ho nulla, perché in questa vita nulla ho trovato, se porto pazienza non significa che sono sazio, perché chiunque avrà la sua ricompensa, io e te fratello ne usciremo vittoriosi affidandoci a Dio. Ti prego, fratello,

prova a comprendermi, chiedo a te perché sei mio fratello, ti prego aiutami,

perché non chiedi notizie di me, non sono forse tu o fratello?». Una vita di umiliazioni in cerca di riscatto, accanto alla moglie, che lavorava con lui nei campi. Una retribuzione vergognosa con la speranza di trovare di meglio, insieme a una casa migliore dove crescere la famiglia. Quello che colpisce è il commento di un parente del datore di lavoro che definisce la tragedia del giovane bracciante «una leggerezza costata cara a tutti». Sarà la magistratura a chiarire i fatti. Ma sul lavoro non esistono leggerezze o negligenze se si è in condizioni di sicurezza: rovesciare le responsabilità alludendo al fatto che il lavoratore “se l'è cercata” è troppo comodo: è ingiusto, oltre che crudele.

«L'Italia non è un Paese buono», ha commentato la moglie di Singh disperata. Una accusa terribile, nella sua semplicità. Non siamo più un Paese buono. Non siamo più un Paese di fratelli, ma di fratellastri.

nella foto Ansa, la sede dell'azienda agricola dove è avvenuto l'incidente.





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