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Lavoro domestico, la sfida? Far diventare la famiglia un “datore” migliore



Se le famiglie continuano ad essere un pilastro insostituibile del welfare nel nostro Paese è anche merito dei moltissimi lavoratori che prestano il loro servizio dentro le nostre case: collaboratori familiari, badanti, baby sitter professionali sostengono, integrano o sostituiscono le relazioni familiari di cura rispetto a tre grandi nodi della vita familiare: la cura delle persone anziane e fragili, la cura dei bambini e la possibilità di conciliare la vita familiare con gli impegni lavorativi (soprattutto per le donne, ma non solo). Per questo è stato di estremo interesse il convegno su Evoluzione del lavoro domestico in Italia, tenutosi a Roma, nella sede dell'INPS il 20 giugno 2024, promosso da Nuova Collaborazione, associazione nazionale datori di lavoro domestico. Il convegno è stata anche l'occasione per presentare i preziosi e ricchissimi dati dell'Osservatorio INPS sul lavoro domestico, da cui si possono trarre diverse riflessioni.

Il dato più preoccupante è stato rilasciato dal numero complessivo di lavoratori domestici registrati dall'INPS: nel 2023 sono stati 833.874, a fronte dei 973.629 del 2021 e dei 902.201 del 2022. Un crollo di più del 7% ogni anno, dopo la regolarizzazione del 2021 (seguita alla pandemia). Ma questo calo riguarda soprattutto i lavoratori “in regola”, mentre si stima un numero almeno altrettanto numeroso di lavoratori “non in regola” – diciamolo puro: in nero, senza protezioni previdenziali, infortunistiche e senza alcun contratto. Il dato non è totalmente negativo, perché anche sono una decina di anni fa la quota di lavoro “non regolare” sfiorava l'80°% sul totale. Tuttavia questo è un nodo strategico su cui intervenire: restituire dignità e visibilità giuridica al lavoro professionale di cura svolto nelle nostre case, per proteggere sempre meglio le persone più fragili presenti nelle nostre case.

Poi ci sono molti altri elementi descrittivi interessanti, su cui riflettere: cresce il numero di italiani rispetto agli stranieri, ma questo forse rimanda ad una maggiore irregolarità nelle relazioni con i lavoratori non italiani; inoltre il reddito medio delle donne è superiore a quello degli uomini, ma questo è sicuramente dovuto al fatto che le donne sono maggiormente impiegate come badanti, con orari spesso superiori alle 40 ore settimanali, mentre tra gli uomini sono più presenti lavori con poche ore settimanali (pulizie, cura della casa); nelle grandi città la presenza media di questi lavoratori domestici è più elevata, a segnalazione una maggiore esigenza di servizi esterni per far funzionare la vita familiare nelle aree metropolitane. Nel complesso i lavoratori domestici sfiorano i due milioni di presenze, che significa una quota rilevante del lavoro nel nostro Paese, purtroppo in gran parte “non regolare”, e dei loro servizi beneficiano almeno due milioni di famiglie, che altrimenti dovrebbero rivolgersi ad altri soggetti: asili nido (che spesso non ci sono) per la cura dei bambini piccoli, o servizi residenziali per i propri vecchi fragili o per i propri familiari disabili (che costerebbero molto di più anche al servizio sanitario nazionale e ai nostri Comuni). Senza dimenticare poi le molte donne che non potrebbero lavorare, senza collaboratori retribuiti per i servizi di cura della casa.

Certo, la sfida è far diventare la famiglia un “datore di lavoro” migliore, e in questo le organizzazioni datoriali sono fondamentali, nel favorire anche dal punto di vista procedurale e burocratico le famiglie stesse. Ma per aiutare le famiglie a far emergere il lavoro domestico occorre prima di tutto rendere “conveniente” il suo utilizzo: ”basterebbe” rendere deducibili o detraibili – in modo non simbolico, ma in quota rilevante, se non integralmente – i costi reali sostenuti per questo personale, in modo da favorire la regolarizzazione del rapporto di lavoro. Così le famiglie spenderebbero meno – e già spendono tanto! -, i lavoratori avrebbero più diritti, e lo Stato avrebbe meno servizi da erogare. In tal modo si potrebbe anche investire sulla qualità del lavoro svolto, attraverso registri, percorsi professionali di base e aggiornamento professionale permanente; e si consentirebbe a tante persone fragili la permanenza nella propria abitazione il più a lungo possibile, evitando istituzionalizzazioni – che sono costose per il sistema pubblico, oltre che negative per la qualità di vita delle persone. In fondo, a far bene i conti, potrebbe essere “conveniente” per tutti, un maggiore sostegno alle famiglie che investono le proprie risorse per la cura dei propri familiari fragili: per le famiglie stesse, che potrebbero restare “nel gioco della cura”; per i lavoratori, che si troverebbero in condizione più protetta e dignitosa; per il sistema pubblico, che riceverebbe meno tasse dalle famiglie (ma più tasse dai lavoratori regolarizzati), e dovrebbe spendere meno in servizi. E allora, perché non agire subito?





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