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«I cattolici non hanno un partito ma uno ‘spartito’ unico da suonare»


«È sotto gli occhi di tutti che la democrazia è un po' invecchiata. Ce lo dice anche il forte aumento dell'astensionismo che abbiamo registrato negli ultimi appuntamenti elettorali. Ed è proprio per questo che abbiamo penato che fosse necessario interrogarsi su questo tema e proporre azioni concrete».

Monsignore Luigi Renna, arcivescovo di Catania e presidente del Comitato organizzatore delle Settimane sociali spiega che l'appuntamento di Trieste, in programma dal 3 al 7 luglio, è fondamentale perché «le derivate che stiamo vivendo possono portare a un populismo nel quale si delega completamente a una persona o a un gruppo ristretto la gestione del potere e la risoluzione dei problemi».

Perché è un tema che riguarda anche la Chiesa?

«I cristiani sono chiamati a chiedersi perché ci sia una crisi di partecipazione e perché molti non sentano più il desiderio di dare il loro apporto all'edificazione del bene comune. L'ispirazione ci viene, ancora una volta, dalla dottrina sociale della Chiesa. Vorrei anche sottolineare che gli ultimi grandi documenti sociali di papa Francesco, le encicliche Laudato si' e Fratelli Tutti, toccano due temi che sono le grandi questioni sociali del momento: l'ambiente e i populismi che fanno nascere i nazionalismi nei quali i Paesi non dialogano più tra loro. In questa situazione è importante che i cattolici recuperino il senso della democrazia».

C'è chi dice che la Chiesa non deve fare ingerenze in campo civile. Che ne pensi?

«La Chiesa non può occuparsi solo di realtà celesti. Il Vangelo ci riporta prepotentemente nella storia e ci chiama ad avere una visione della persona. Per questo difendiamo la vita e diciamo no all'aborto e all'eutanasia, ci preoccupiamo della dignità dell'uomo e diciamo no a tutte le forme di sfruttamento, pensiamo alla coesione sociale e diciamo no a tutte le forme di populismo che rischiano di creare dei nazionalismi che abbiamo imparato nella storia del Novecento, portano inevitabilmente alle divisioni, pensano alla solidarietà e criticano la riforma sull'autonomia differenziata. Non è un impegno recente. Pensiamo al contributo dei cattolici alla resistenza e alla ricostruzione del Paese, ai padri costituenti i cosiddetti “professori” di ispirazione cristiana, al ruolo dei fedeli laici come operatori di pace e dei diritti umani in tutto il mondo».

Le democrazie sono in crisi un po' ovunque, qual è il motivo di questa fragilità?

«Uno dei motivi è senza dubbio il forte individualismo, la stessa visione dell'uomo che non è più segnata da grandi ispirazioni come quella cristiana o da valori che vogliono la partecipazione di tutti. E poi un certo benessere, una visione favorita da un sistema economico liberale che ha portato l'uomo a guardare semplicemente a se stesso, costruendo un mondo, avrebbe detto Papa Francesco, “di soci e non di fratelli”. Credo anche, ma c'è bisogno di un'analisi approfondita sul tema, che una delle cause è anche quella di non aver fatto i conti fino in fondo con i totalitarismi (fascismo italiano, nazismo tedesco, comunismo sovietico…), nati da nazionalismi esasperati, che hanno traumatizzato il primo cinquantennio della storia europea e hanno privato l'uomo della sua dignità, i popoli della loro partecipazione e condotto alle guerre. «Fare i conti con queste visioni significa dire che dobbiamo avere una visione diversa e non possiamo mai permetterci di dividere il mondo con una guerra violenta o con una guerra fredda».

Di questo parlerai a Trieste?

«Abbiamo parlato anche dei percorsi preparatori per capire come riscoprire i valori della partecipazione. Hanno lavorato 2.237 gruppi, 3.640 persone con un grande coinvolgimento da parte di tutte le diocesi. Abbiamo sperimentato che i cattolici non hanno un partito unico, ma, per dirla con Leonardo Becchetti, “uno spartito unico” da suonare. A Trieste, con i circa mille delegati, le cento buone pratiche, le piazze tematiche, le piazze della partecipazione, il dialogo su alcuni aspetti della vita del Paese, ci sarà modo di confrontarsi – visto che mancano luoghi per farlo – per far nascere progetti. che rafforzino la presenza sui territori. Queste settimane sono un processo, non una celebrazione, che continuerà. Perché abbiamo bisogno di recuperare una visione d'insieme, di renderci conto che possiamo fare rete e dare un grande apporto in termini di umanità, di visione della persona e della comunità, che fa bene non solo all'Italia, fa bene al suo futuro, fa bene all'Europa, fa bene al mondo».





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