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Utero in affitto: una pratica che stravolge e svilisce la maternità



In questi giorni si è tornati insistentemente a parlare di utero in affitto. L'occasione è data dalla recentissima approvazione, da parte della Commissione Giustizia del Senato, del disegno di legge che introduce il regolamento universale sulla maternità surrogata. Questa pratica è, in realtà, già vietata in Italia con una pena di due anni di reclusione (art. 12, comma 6 della legge 40 del 2004); la nuova proposta, tuttavia, mira a contrastare il fenomeno delle coppie italiane che si recano oltre i confini nazionali ed estende la punibilità del reato anche se commesso all'estero. Il testo, che aveva già superato il vaglio della Camera lo scorso anno (26 luglio 2023), è stato approvato senza modifiche. Si tratta di una tappa importante che avvicina il provvedimento all'approvazione definitiva. Per rendersene conto, è sufficiente riflettere sul fatto che il ricorso all'“utero in affitto” è uno degli aspetti più inquietanti delle tecnologie riproduttive. Infatti – al di là del grembo messo a disposizione il suo contratto e dietro compenso – la pratica è connessa a una visione della procreazione umana completamente disarticolata rispetto alla sua natura e impregnata della cultura del figlio a tutti i costi che svilisce e stravolge il significato della maternità. , della genitorialità, della generazione umana, della responsabilità procreativa.

La deriva dell'affitto dell'utero si aggiunge al già triste scenario della fecondazione extracorporea, che implica lo scarto e la manipolazione spesso distruttiva degli esseri umani allo stadio embrionale, l'abominevole sfruttamento delle donne povere e il commercio del corpo femminile e dei neonati.

Non per nulla, si parla di una nuova forma di schiavitù. Il fatto che ciò avvenga in base a contratti stipulati “secundum legem” (come avvenuto in passato per la compravendita degli schiavi) non cambia per niente la sostanza, che nel caso in questione è quella della decostruzione della genitorialità e della filiazione, sfruttando la miseria in cui spesso versano le “mamme surrogate”. Se il figlio diventa oggetto di un contratto, si rompe intenzionalmente nella mentalità personale, culturale e sociale il valore del “sempre” che caratterizza il legame madre-figlio e si recide volontariamente il legame primordiale che ci caratterizza.. Qual è la differenza tra l'acquisto di un bambino già nato e l'acquisto del medesimo quando è ancora in gravidanza? E se è doveroso, anche giuridicamente in base all'art. 3 della Convenzione internazionale sui diritti del figlio, dare la prevalenza agli interessi dei minori, perché non affermare come prioritario il diritto del figlio all'unitarietà della figura materna?

Ma non basta. Per vincere la “guerra dei potenti contro i deboli” e la “cultura dello scarto” occorre una strategia di “attacco” complessivo. Si tratta di capovolgere la mentalità dell'”io” e del “mio”, e per farlo bisogna fare leva sui diritti dei più poveri, dei più piccoli e dei deboli. Il primo sguardo deve essere rivolto al figlio sin dal concepimento. L'orizzonte deve comprendere certamente la dignità della donna, ma anche quella dei figli. Il rifiuto anche femminista della maternità surrogata manifesta un'inquietudine salutare, nella quale, a livello emotivo è presente anche il figlio. Da qui si riparte per rinnovare la società.





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