News

«Contro la guerra l’amore e la misericordia sono le uniche armi»



«Penso che noi facciamo fatica ancora a capire che il rischio di una guerra mondiale non è un’ipotesi. Si crede ancora che chi mette in guarda da questo pericolo sia pessimista, o menagramo. Eppure dovremmo ricordarci che anche verso il Covid, all’inizio c’era lo stesso atteggiamento. L’analogia è forte, perché per molti aspetti la guerra è una pandemia. Dieci anni fa Papa Francesco ha cominciato a dire guardate che ogni conflitto è un pezzo di una guerra mondiale, che sta dilagando. Ma ci abbiamo creduto poco, pensando che si trattasse di disquisizioni salottiere o da geopolitica. Ma prima pensavamo che se un virus o una sua variante erano così lontani dai nostri confini, in fondo potevamo stare tranquillli e invece dal Covid in poi abbiamo scoperto che il contagion arriva rapidamente e in modo inaspettato. Per la guerra è lo stesso, ma facciamo ancora fatica a capire che è davvero così cioè che siamo tutti sulla stessa barca e siccome siamo tutti sulla stessa barca pensare di salvarsi da soli è una follia».

Questo il coinvolgente messaggio del cardinale Matteo Maria Zuppi, presidente della Cei e arcivescovo di Bologna, ieri sera a Salerno al Festival delle Colline Mediterranee, promosso dall’associazione Do.Po. che prosegue l’impegno sociale  e culturale di Domenico Postiglione, il compianto fondatore della Tenuta dei Normanni, scenario della rassegna giunta alla quinta edizione sotto la Direzione artistica di Eduardo Scotti.

Il tema della serata, tratto dal celebre monito di don Tonino Bello, replicato di recente all’Arena di Verona, era: “Costruttori di pace, alzatevi!” e Zuppi ha risposto alle domande del nostro condirettore, Luciano Regolo, davanti a un folto pubblico

«Putroppo», ha aggiunto il cardinale, «abbiamo custodito poco gli strumenti per risolvere con altri mezzi i conflitti. É vero questi ci sono persino tra le persone che si vogliono bene, ma a un certo punto, sul piano Internazionale, si va affermando la convinzione che solo le armi possono risolverli. E questo è un inganno perché in realtà aggravano le situazioni. Perciò quando il Papa ci parla del pericolo della Terza Guerra Mondiale dovremmo preoccuparci molto».

É iniziato poi il botta e risposta con il condirettore di Famiglia Cristiana.
Dal maggio 2023 ha avuto da Papa Francesco l’incarico, di una sorta di speciale missione di pace per il conflitto russo-ucraino. É stato a Kiev, in Russia, negli Usa e infine in Cina. Che cosa è emerso da questi suoi incontri? Quali sono gli ostacoli più irriducibili da rimuovere per trovare una “pace giusta”?

«Questa “missione”, diciamo così, è nata perché Papa Francesco non può stare con la mano in mano mentre si consuma una guerra devastante. Il Santo Padre per fortuna non si abitua al dolore, non fa come tanti di noi che dicono “ci dispiace”, ma poi cambiano canale perché sono stufi di vedere le immagini della gente che soffre o delle case bombardate. Ma chi vive in prima persona questi orrori non può cambiare canale, purtroppo…

Ecco perché il Papa non demorde, mi colpisce perché anche in un’età, diciamo così, non del tutto giovanile non sta con le mani in mano. Continua con contatti, con le telefonate, vuole che si sia sempre “sul pezzo”, per per moltiplicare ogni possibilità: non può accettare la violenza e la guerra. Tutti abbiamo visto il suo coinvolgente pianto di commozione l’8 dicembre di due anni fa davanti alla statua dell’Immacolata, confidando: “Speravo di venire qui e ringraziare perché tutto era finite e invece tanta gente muore, tante madri piangono…. E poi con voce rotta di pianto pregò: “Siamo qui ancora a chiederti il dono della pace”…

Per quanto riguarda I miei incontri è chiaro che dietro non c’era un piano, magari qualcuno ha pensato che il Papa avesse un piano segreto, un Coniglio da tirare fuori dal cilindro, ma non è così, la verità è solo che lui non accetta di non fare qualcosa. Non aveva e non ha chiaro che cosa fare, ma sa che vuole agire perché la guerra e le sue crudeltà si fermino. La cosa che si è messa in luce finora, credo è che possiamo agire intanto sul piano umanitario ed è quello che sta facendo ancora il cardinale Parolin nel suo viaggio in Ucraina di questi giorni. Perché il presidente Zelenski ha detto esplicitamente di non aver bisogno di mediatori di pace,
ma di qualcuno che li aiuti, per esempio, a far tornare I tanti bambini che sono stati portati in Russia, o a favorire lo scambio di prigionieri con tutta una serie di garanzie».

Di recente l’arcivescovo Gallagher, segretario vaticano responsabile dei rapporti con gli Stati e le organizzazioni internazionali, ha indicato nella misericordia scaturente dal Vangelo, quindi nella forza che si trae ascoltando tutti e parlando con tutti il “qualcosa in più” della diplomazia vaticana. É d’accordo e quanto questo aspetto può far presa nello scenario Internazionale segnato da cinismi ed egoismi? Come si fa a non scoraggiarsi?
«No anzi bisogna impegnarsi ancora di più, perché a maggior ragione, se siamo messi così male, l’amore e la misericordia sono le uniche cose che possono smuovere le acque. C’è davvero bisogno di uomini di fede, di cristiani autentici, di uomini che amano Dio e il prossimo. Papa Francesco ne è convinto, e anche io. C’è bisogno di uomini che amano Dio e il prossimo, appunto Papa Francesco ne è convinto, e anche io penso che solo così si possa aiutare la Chiesa. Qualche volta abbiamo fatto credere che gli esseri viventi sono tutti buoni, ma sappiamo che l’umanità non è perfetta. Il nostro “Fondatore” un traditore a cui lasciare le chiavi. Insomma, non c’è dubbio gli uomini siamo quello che siamo e lo dico con amarezza, perché di certo dovremmo cercare di essere un po’ meglio, però la Chiesa è una cosa straordinaria, perchè può unire, parlare con tutti proprio perché non ha altri interessi, proprio perché ha un’autorità e l’autorità non è data soltanto dalla storia, l’autorità è data anche da tutti I credenti che vogliono dare una mano alla Chiesa, cioè se la rendiamo viva, capace di rispondere appunto alle tantissime necessità. Ecco perché, a maggior ragione con un mondo come questo, c’è bisogno di essere cristiani, di testimoniare quello che può unire al di là dell’etnia, al di là delle divisioni ed essere operatori di pace. Potere questo che è chiesto e affidato a tutti.
Non è soltanto ai grandi strateghi, poi se ci sono tanti manuali, tanti operatori di pace forse ci sarà anche qualche stratega in più. Soprattutto gli interessi di parte o la logica delle armi non prevarranno».

A proposito di armi, c’è grande conflittualità anche tra gli stessi cattolici. Si discute se dotare o meno l’Ucraina anche di quelle in grado di colpire il territorio russo. Alcuni sostengono che non bisognerebbe proprio inviarne… Qual è la sua posizione personale? Fino a che punto è lecito l’utilizzo delle armi e quale concetto di “difesa” deve passare?
«Penso che sia una domanda che ha segnato il cristianesimo sin dagli albori. Molti dei primi martiri erano militari che rifiutavano di combattere, facevano “obiezione di coscienza”, diremmo oggi. Penso a san Mario, per esempio. Venendo alla questione della legittima difesa, essa è presente nel Catechismo della Cheisa Cattolica, ma al contempo è ferma la condanna alla guerra. Purtroppo, la condotta a riguardo non è stata lineare. La condanna inequivocabile della guerra comincia solo con Benedetto XV, eletto nel 1914, che definì il primo conflitto mondiale “l’inutile strage” e cominciò a prendersi degli isulti perché spiegava che la Chiesa non può benedire le armi. Irritò anche I cappellani militari, che non capivano, ma lui insisteva che inemici al fronte pregavano lo stesso Dio, lo stesso Gesù qualche volta con le stesse devozioni. La legittima difesa è stata la motivazione con cui l’Occidente, in particolare Stati Uniti, Inghilterra e Unione Europea, hanno deciso di sostenere l’Ucraina, consapevoli delle diffcioltà a cui questa Nazione andata incontro scontrandosi con la forza militare della Russia.
Certamente, ma tuttora il problema è capire fin dove può arrivare la legittima difesa. Tant’è vero che, ancora oggi, anche da parte del nostro Governo, si evita di fornire agli ucraini armi eccessivamente avanzate, proprio per “contenere” il conflitto ed evitare nuove escalation. La soluzione migliore sarebbe garantire la legitima difesa, ma anche trovare la strada per una pace giusta. Tuttavia, pare che il negoziato, che dovrebbe essere un principio del diritto, incontri sempre degli ostacoli per cui alla fine l’unica via percorribile resta sempre quella delle armi».

Non teme che, attardandosi su queste posizioni, l’Occidente tolga un diritto agli ucraini e che, così facendo, un eventuale negoziato assuma i tratti di una resa?
«Il negoziato non sarà un atto di cedevolezza. Se il terzo attore, la comunità internazionale, che siamo noi, sarà in grado di scendere in campo giocando un ruolo da protagonista, allora riusciremo nel nostro intento. Altrimenti, ci saranno solo armi col rischio concreto di assistere a una consistente espansione del conflitto».

Lei prima accennava al dramma dei bambini rapiti e “russificati”, possiamo dire che, in questo, l’impegno della Santa Sede e il suo personale, Eminenza, è stato molto forte. Quante di queste emergenze permangono ancora oggi e cosa si puòfare?
«Anzitutto, mi lasci esprimere la gioia per aver accolto in Italia, grazie alla Caritas, quasi mille bimbi ucraini. Detto questo, penso che si possa fare moltissimo. Ricordo, per esempio, quando, dopo il disastro nucleare di Chernobyl nel 1986, negli anni seguenti tanti bambini rimasero nel nostro Paese per un po’ di tempo prima di tornare in Ucraina. Ecco, per rispondere alla sua domanda, serve qualsiasi cosa, anche piccoli gesti come questo, per combattere l’orrore della guerra. Un orrore che, purtroppo, questi bambini si portano dentro. Dal frastuono delle armi, alla lontananza e, in alcuni casi, addirittura la perdita dei genitori. Rumore e paura che chi di noi ha avuto qualche nonno, o qualche zio che ha vissuto la guerra, e stava sotto i bombardamenti o un parente che non è più tornato dal fronte lo capisce. La stessa cosa accade lì, a breve saranno gli ottant’anni da Marzabotto, uno dei peggiori massacri che avrebbe dovuto insegnarci qualcosa. Purtroppo, quando c’è la guerra, le iniziative intraprese subiscono dei forti rallentamenti, soprattutto i ricongiungimenti familiari che sono già molto faticosi. Domenica 21 luglio, il Segretario di Stato della Santa Sede, cardinale Pietro Parolin, visitando la nunziatura apostolica di Kiev, ha volute ringraziare i sacerdoti proprio per l’impegno profuso nel far riabbracciare ai bambini i loro genitori. È un bellissimo meccanismo, ormai abbastanza “oliato”, che ci auguriamo possa funzionare sempre meglio. In quei piccoli persiste una specie di “bombardamento” psicologico che, in assenza delle madri e dei padri, li spinge a credere di essere stati abbandonati, oppure il sentir parlare male dei genitori da parte dei russi. Tutte cose che, poi, richiedono una particolare tenerezza nella fase dell’accoglienza».

Passiamo all’Unione eruopea. Ci sono state le elezioni del Parlamento e Ursula von der Leyen ha avuto un secondo mandato per la presidenza della Commissione, senza però il consenso del governo italiano. Inoltre, l’Europa soffre di forti venti sovranisti e non propriamente pacifici. Come vede questa Europa che si sta profilando nello scacchiere della pace, più forte o più debole?
«L’europa unita è un dono. Abbiamo avuto 80 anni di pace, non diamolo per scontato. Il problema è che non abbiamo fatto la manutenzione né della pace, né di quest’Europa. E tutte le cose portate avanti senza manutenzione alla lunga si rovinano. Abbiamo sempre rimandato, oppure accettato certe situazioni senza mai andare al nocciolo della questione e, dunque, lasciando I problema irrisolti. Direi che dal punto di vista istituzionale l’assetto dell’Ue, grosso modo, è una una una copia carbone della precedente. È questo bosgogno di manutenzione focalizzato e sul quale penso ci sia una responsabilità anche dei cristiani, direi anzi, proprio dei cattolici. Non è un caso se i padri fondatori sono stati tre cattolici, tre sante persone:  Schumann, Adenauer e De Gasperi. Non biosgnava aspettare lo scoppio della guerra in Ucraina. Dovevamo e dobbiamo continuare a farla crescere l’Europa, quella della moderazione e speriamo che le forze che sono contrarie a questo disegno non prevalgano. Perché il sovranismo è pericoloso? Perché è il contrario dell’Europa.
L’Europa unisce, una Nazione perde sovranità in nome di una sovranità che ne unisce tante. È un po’ il disposto della seconda parte dell’articolo 11 della Costituzione, per cui si ripudia la guerra. Ma questo è impossibile se non si dà il potere a un organismo sovrannazionale in grado di far fede all’impegno.  Senza questa rinuncia, il progetto si indebolisce, mentre andrebbe rinforzato e così ricomincia la logica del riarmo, che è un po’ tradire il testamento che ci hanno lasciato tutti quelli che sono morti nella Seconda guerra mondiale e anche nella Prima, per cui abbiamo una grande responsabilità. Molti ucraini sono scoraggiati, pensano che sarà impossibile mettersi d’accordo. Ma è già accaduto in passato tra i francesi e i tedeschi, che si erano combattuti per secoli e, invece, dopo il 1945 tutto è cambiato. Ecco perché la manutenzione serve sempre, perché purtroppo c’è un signore che la zizzania continua a seminarla abbondantemente, soprattutto se uno dorme.
Spero, quindi, che pur nelle diversità, nella dialettica, prevalga la spinta per far crescere l’Europa e perché davvero ci sia una sovranità in grado poi di aiutare i paesi e le nazioni, le patrie. Ma dovremmo sempre di più provare a credere che forse prima siamo europei, e perciò siamo italiani».

C’è un altro aspetto che papa Francesco ricorda forse tra le poche voci isolate a un certo livello: la responsabilità che hanno molte grandi aziende nelle varie nazioni a continuare a produrre e commerciare armi. C’è anche l’ombra di questi interessi affaristici nel’esplosione e nel prosieguo di tanti conflitti?
«Diciamo che il dubbio viene. Guarda caso la produzione e il traffico delle armi sono esponenzialmente aumentati. Gli interessi sono enormi. Ecco perché viene il dubbio: il rapporto causa-effetto qualche volta è difficile stabilire, è arduo dire che facciamo la guerra perché ci sono le armi, forse facciamo la guerra e ci andiamo a cercare le armi, su questo non c’è dubbio.
Dobbiamo preoccuparci tantissimo della sfacciata corsa al riarmo e di un’Europa che non sia mai soltanto quella dei diritti individuali che fanno male all’individuo, o dell’ideologizzazione che porta al nichilismo, diventa distruttiva».

Si parla di inserire nella Carta europea anche il diritto all’aborto…
«Non è un problema solo per noi cattolici, è anche un problema dei cattolici, ma è qualcosa di più ampio che attiene alla percezione della vita, all’umanesimo. Dell’Esistenza si garantiscono tutte le varianti possibili, ce ne inventiamo anche un po’, ma invece non garantiamo la vita. C’è qualcosa che non funziona, no? Il discorso vale anche per l’eutanasia. Non bisogna dimenticare quanto è importante accompagnare qualcuno che sta male e come in quei momenti ci sia una sorta di riassunto della vita e del suo significato, piuttosto che staccare la spina e basta. A volte la Chiesa è stata male interpetata: nonsi tratta di difendere l’accanimento terapeutico, o di far soffrire di più fino alla fine, ci sono le cure palliative. Anche in questo caso non dovrebbe essere un problema solo dei cattolici.
Ma non è questo il problema, è proprio il problema che la vita è sempre in relazione agli altri e che io ti devo garantire la vita, la protezione e la cura. Mi chiedo quante persone pensino seriamente alla sofferenza, perché abbiamo un’idea talmente pornografica della vita per cui dobbiamo avere tutti sempre 30, 40 anni essere tutti perfetti e al massimo della prestanza. Ebbene: lo dico ufficialmente, è un inganno».

C’è un’altra area di conflitto molto evidente: il territorio di Gaza, dove si continuano a colpire anche ospedali, scuole, poiché Israele sostiene che sotto questi luoghi che dovrebbero essere protetti, si nascondano dei terroristi di Hamas. Che cosa si può in concreto fare per come dire, spegnere questa spirale di odio, di violenza scaturita dal crudele attentato terroristico del 7 ottobre?
«La prima cosa da tenere in considerazione è sopravvivenza. Ossia: quelli che pensano “stiamo facendo così perché altrimenti veniamo distrutti”. Credo che anche da parte degli amici di Israele, ci sia un coro abbastanza univoco, gli dicono di cessare il fuoco. Però va sempre capita la sensibilità, come si vivono e si recepiscono le situazioni in cui vivono gli altri. Quando sono andato l’ultima volta a Gerusalemme eravamo quasi 150 pellegrini e abbiamo incontrato molte comunità palestinesi e anche ovviamente i familiari degli ostaggi. Rachel, la mamma di un ostaggio di 31 anni, Hersh, mi ha molto colpito perché ha detto: “Non c’è la classifica dei dolori, io non voglio che il mio dolore provochi altro dolore”. Per me questa dev’essere la vera scelta di tutti. Bisogna comprendere il dolore di tutti, non solo il proprio. Ed è vero che chi semina vento raccoglie tempesta». 

 

Allora era il principio degli anni ’90, lei fu con Andrea Riccardi e tutta la comunità di Sant’Egidio al centro di una mediazione di pace che sembrava impossibile e provocò, di fatto, la fine di una lunga e sanguinosa guerra civile in Mozambico. Quale fu il segreto del successo? 
«Tutto iniziò con un’affermazione proprio di Andrea il primo giorno: “Cerchiamo quello che unisce”. Citava la Pacem in terries di san Giovanni XXIII, come dire: mettiamo da parte quello che divide e cerchiamo quello che ci avvicina. In realtà, l’intuizione era che tutti volevano la pace. Sì, molte volte è questa la verità sepolta sotto l’odio, sotto l’abitudine della guerra, sotto la vendetta. C’è per forza il desiderio di tornare a casa, il desiderio della pace, il desiderio di riprendere la vita di prima, il desiderio di farla finite con l’orrore. Poi fu determinante anche la scelta tra le parti della negoziazione di Roma e di Sant’Egidio, perché era il segno che non ci fosse alcun altro interesse che non fosse quello di ricostruire la famiglia mozambicana.
Ecco, io penso che il terzo attore in ogni guerra dovrebbe essere la comunità internazionale che dovrebbe sempre cercare e mettere in opera ogni mezzo per la pace».

Che cosa si può fare in concreto per alzarci come costruttori di pace secondo l’invito di don Bello?
«Sicuramente l’informazione ha un ruolo importante. Lo si vede anche nella storia dei rapporti tra Russia e Ucraina: per rendersi conto delle situazioni, bisogna anche comprendere i fallimenti. Che cosa possiamo fare noi tutti? Da credenti, la prima cosa è pregare, menttre a volte lo facciamo solo quando non abbiamo più niente da fare. Come se fosse un’ultima spiaggia? No, dev’essere la prima spiaggia, perché dalla preghiera nasce tanta energia di pace. Anziché fare le rimostranze al Padre Eterno perché non fa come gli diciamo noi, bisogna invocarlo con amore e fiducia. Nella preghiera nasce anche il dolore, c’è più consapevolezza del dolore di quei tanti che non vedono l’ora che ci sia finalmente la pace. E quindi si diffondono tante scelte che vanno dalla solidarietà, all’accoglienza, per esempio, devo dire che l’Italia è stato forse il Paese europeo che ha accolto più rifugiati in un breve periodo, poi alcuni si sono fermati e molti sono tornati nel loro Paese».

Se alle presidenziali americane fosse eletto Trump, il dialogo per la pace si farebbe ancora più difficile?
«Non lo so, è difficile dirlo. Trump ha detto alcune cose che chiaramente hanno un po’ spaventato sia gli ucraini sia la NATO, perché annuncia la volontà di chiamarsi fuori. Ma sis a che nella campagna elettorale si dicono certe cose, poi nell’amministrazione si entra in una logica istituzionale e in un sistema di relazioni tra Stati che implica una serie di responsabilità».

Che importanza può avere il progetto formativo e scolastico nella diffusione della cultura della pace?
«Un messaggio che mi era entrato nel cuore è: l’educazione è il nome della pace e viceversa. Luciano Violante mi ha raccontato che, quando era presidente della commisione parlamentare antimafia, andò da don Pino Puglisi, oggi beato, e gli chiese: “Ma lei che cosa fa?”. “Io insegno ai ragazzi a dire per favore”, perché altrimenti passa la logica del “comando io”, del più forte e del più furbo, quella tipica delle mafie. E l’educazione poi è fondamentale per comprendere che esistono anche i doveri e non solo i diritti. E che le due cose sono strettamente legate».

 





Source link

Leave a Reply

Your email address will not be published. Required fields are marked *