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La lingua giapponese, un pennello favellante


Padre Mazzocchi durante un battesimo di due fedeli giapponesi a Milano.

Padre Luciano Mazzocchi, missionario saveriano, 85 anni, ha vissuto per 19 anni in Giappone e, da Milano ove vive e cura le anime della locale comunità del Sol Levante, continua a coltivare il suo amore per quel popolo che lo ha accolto con amicizia e per la sua lingua. La sua stessa fede è stata arricchita da quell'esperienza, che si compone della complessa somma di fattori che caratterizzano la vita e la mentalità di un popolo. A partire dalla lingua locale, che riflette un modo di essere e di concepire la vita. Lo abbiamo incontrato per farci raccontare l'eredità che si porta dietro da quella straordinaria esperienza a partire proprio dall'idioma giapponese.

Padre Luciano, come sempre nella vita quello che viviamo ci cambia. Tu sei stato missionario in Giappone per tanti anni. Il tema della lingua giapponese ha segnato molto anche la tua fede. Cosa ti avvisa di essa?

«Dopo due anni di studio intensivo della lingua giapponese, dal 1963 al 1965, presso l'istituto linguistico YMCA di Kobe e dopo 17 anni di immersione missionaria nella vita quotidiana del popolo del Sol Levante, l'anima di quell'arcipelago di risaie che mi ha ospitato e l'anima della terra emiliana dai verdi prati dove sono cresciuto si sono accordate a convivere dentro di me. Lo avvertii la prima volta quando sognai in lingua giapponese. Dal rientro in Italia nel 1982 sono trascorsi 43 anni e ancora nel sogno parole italiane e giapponesi confabulano tra loro. Nelle omelie della messa in lingua giapponese, se leggo (avviene raramente) le parole mi escono formattate, quasi noiose, mentre quando mi esprimo con il giapponese che sgorga spontaneo dal cuore, avverto di comunicare con l'assemblea che mi ascolta. La lingua giapponese mi avvince perché, a differenza delle lingue neolatine simili fra loro, ha un'anima che è altra da quella della mia lingua natia. L'anima della lingua giapponese e quella della lingua italiana sono reciprocamente altro perché è differente il rapporto dell'uomo orientale e di quello occidentale con le cose, con gli avvenimenti, soprattutto è differente il rapporto con sé stesso».

In che senso?

«Mi capita di riflettere su questa alterità della lingua giapponese al confronto dell'italiano e mi domando da dove parta quel loro differenziarsi. A lungo quel “dove” mi fu irreperibile, perché persistevo nell'osservare dal mio scontato punto di vista italiano, ma fu proprio il costante uso della lingua giapponese che mi accompagnò al dove e al come i giapponesi vedono l'esistenza. Quel dove e quel come è il cuore giapponese. Infatti la lingua è il palpito del cuore di un popolo».

Puoi farci degli esempi?

«La lingua giapponese non conosce né il pronome né l'aggettivo che noi chiamiamo relativo, per cui non può correlare il complemento di tempo, di luogo o di altro ad una frase che è posta come principale. Non si dà, quindi, alcuna traduzione letterale in una lingua neolatina o anglosassone in cui il pronome e aggettivo relativo fa da collante, ma una frase italiana deve anzitutto essere scomposta e ricomposta secondo il fluire del pensiero giapponese. In giapponese il concetto di essere diviso e di com-prendere è espresso dallo stesso verbo: wakara (Avanti)una vera contraddizione per noi occidentali che intendiamo le attività di comprendere e di dividere vieni di fronte. Prendo ad esempio una espressione comunissima: “Oggi per caso mi è capitato di incontrare quel tuo amico di cui mi hai parlato quando ci siamo visti al bar che sta in Piazza Duomo”. La nostra sintassi nel periodo distingue l'affermazione principale, formata dal soggetto e dal corrispondente oggetto, che nella frase suddetta è “Oggi per caso mi è capitato di incontrare quel tuo amico…”: il soggetto (sottinteso) è io e l'oggetto quel tuo amico. A questa affermazione principale si correlano tramite il pronome relativo le tre specificazioni seguenti. La lingua giapponese, invece, per tradurre l'espressione suddetta, deve separare le quattro asserzioni che formano la frase suddetta in altrettante pennellate distinte. Così:

“Duomo del Piazza in stare bar nel ,

esserci visto in quell'occasione,

avermi parlato di quel tuo amico del,

oggi per caso avere incontrato”.

Da notare il capovolgimento della sintassi e come le preposizioni in giapponese sono posposizioni. Tutto questo è molto significativo; infatti mentre nell'italiano la preposizione è la particella che precede e introduce, in giapponese è la posposizione che conclude ogni pennellata. Da notare soprattutto come il verbo non è coniugato, ma sempre nella forma di infinito. In tale forma il verbo assorbe la funzione relativa, in quanto scioglie la distinzione tra soggetto e oggetto e tra frase principale e complementare. Ossia, il mettere in rilievo il soggetto nella lingua giapponese classica risulta secondario o perfino inutile, quasi blocchi il fluire; mentre la forma di infinito descrive il verbo come dinamica che avviene coinvolgendo non un solo polo, il soggetto o l'oggetto, ma l'ambiente in cui le cose accadono. Anche il soggetto e l'oggetto emergono dall'/nell'accadere delle cose. Il giapponese è lingua impersonale, contemplativa, più che ragionata. Traduco la frase suddetta in giapponese (trascrivo Duomo e Bar in lettere romane perché ormai i due termini sono entrati così anche nella lingua giapponese):

Duomoの広場にあるBarで

出会った時に

紹介してくれたあのお友達と

今日偶然にも会いました.

Duomo nel bar Hiroba ni Aru

deatta toki ni

shōkai merda kureta ano otomodachi to

non posso permettermi di farlo».

L'ultimo libro scritto dal missionario saveriano, "La gratuità e la libertà interiore".

L'ultimo libro scritto dal missionario saveriano, “La gratuità e la libertà interiore”.



Certamente un grande ribaltamento delle nostre categorie… E riguardo a Dio cosa puoi dire?

«Nel 1867, dopo 250 anni di isolamento, il Giappone riaprì la porta al mondo e molti studiosi accorsero a conoscere quella porzione umana rimasta segreta. Nell'archivio dello shōgun fu trovato un manoscritto dal titolo “西洋紀聞” (Seiyō Kibun – Notizie sull'Occidente”) che riporta l'interrogatorio dello scienziato confuciano Arai Hakuseki al missionario Giovanni Sidotti, anno 1708. Il missionario Sidotti era stato incarcerato perché entrato clandestinamente nel Giappone proibito e perché ministro di una religione già proibita dal secondo shōgun nel 1614. Arai Hakuseki – è il nome dello scienziato autore del manoscritto – incaricato dallo shōgun a investigare le intenzioni del missionario invasore, annotò accuratamente le tante domande rivolte a Sidotti e le risposte ricevute, aggiungendovi i suoi commenti. Quanto segue è il commento personale che lo scienziato annotò dopo aver indagato il concetto del missionario su Dio. Ecco l'annotazione che Arai Hakuseki consegnò allo shōgun: “A sentire l'Europeo il termine latino Deus corrisponde al nostro Sōzō no Nushi (il Signore della creazione) e indica l'essere che ha creato direttamente l'universo. Questa teoria sostiene che nessuna cosa può avere origine da sé stessa e che necessariamente deve avere un creatore; allora questo Deus ha avuto bisogno a sua volta di un creatore per cominciare a esistere. Se, invece, Deus ha potuto essere origine di sé stesso, perché anche la natura non ha potuto autogenerarsi?” (da “L'ultimo missionario, Renzo Contarini e Augusto Luca, P. 117, Italia Press Edizioni)».

Salta il criterio di causa ed effetto…

«Esattamente. Il criterio fontale da cui l'orientale parte alla ricerca del modo giusto di esistere non è il principio di causa ed effetto, né è il soggetto che produce e l'oggetto prodotto, né quindi la distinzione di un creatore e delle sue creature, oppure dell'io pensante e della res estensione pensata. L'orientale percepisce l'autogenerazione come fonte dell'essere di tutto quanto è. Le caratteristiche che differenziano le cose esistenti sono il DNA intrinseco alla stessa autogenerazione. Dio è l'autogenerazione divina, l'uomo è l'autogenerazione umana, le cose naturali sono l'autogenerazione naturale. Le tante affermazioni che l'occidentale subordina alla frase principale correlandole con il pronome e l'aggettivo relativo, e concludendo ciascuna con una posfazione, queste affermazioni nel linguaggio orientale sono come pennellate, ciascuna con il suo timbro autogeno di intensità-. Ciò che è autogeno, precede e avvolge le distinzioni e le contraddizioni che si susseguono nello scenario della vita. Il verbo all'infinito funge da sfondo nella cui profonda dimensione gli attori a turno compaiono a svolgere la propria parte».

Giustamente è la mentalità che sostiene a una concezione linguistica.

«Aggiungo di più. Un anziano sacerdote giapponese dettò una riflessione ai sacerdoti della diocesi di Kagoshima, tra loro anche il sottoscritto. A incontro terminato, alquanto turbato, rivolsi all'anziano sacerdote la domanda perché ripetutamente aveva detto: “Penso che Dio esiste” e mai chiaramente: “Dio esiste”. La sua risposta fu: “L'affermazione Dio esiste è senza il palpito di ciò che è vivo. Ma quando detto: Penso che Dio esista, dentro c'è il palpito della mia esperienza”. La chiesa occidentale ha sempre avuto paura del panteismo e ha predicato la trascendenza di Dio fino al limite del dualismo. Ma dove si dà la trascendenza di Dio se non nel cuore dell'uomo che lo pensa e lo venera? Quando Dio come se stesso e l'uomo come se stesso si incontrano nel verbo amare coniugato in forma di infinito, allora si dà l'esperienza mistica. Si dà l'unum. Evoco una espressione di Scoto Eurigena, teologo presso la corte di Carlo Magno: “Deus facit omnia et fit (Deus) in omnibus – Dio fa tutte le cose e diviene Dio in tutte le cose”.

La lingua della mia terra natale dai prati verdi su terra asciutta e quella della terra a cui fui inviato dalle risaie immerse nell'acqua, oggi convivono in me. Sento mio il coniugare il verbo secondo i pronomi personali: io – tu – ella/egli ecc. riconoscendo in/di ciò che accade il soggetto e l'oggetto. Ugualmente riconosco mio il pronunciare il verbo all'infinito coinvolgendo il soggetto, l'oggetto, l'ambiente, perfino qualora si tratti di un grave delitto in cui uno uccide e l'altro resta ucciso. Nel crogiolo del verbo coniugato in modo personale e contemporaneamente del dirlo e comprenderlo nella modalità impersonale di infinito, dividendo con la mente e contemporaneamente unificando con il cuore, in questa feconda tensione la eco della natura vera di quanto esiste ed accade, sempre più vera e profonda di quanto può recitare una sola cultura. Congiungo le mani – gassho- e dice: Amen! Così è!

Nel mio ultimo libro dal titolo “La gratuità e la libertà interiore – scalando a mani nude”, la cui lettura oso raccomandare, è il mio audace tentativo di abbozzare il volto dell'uomo che oggi comprendo e contemplo più nobile, più vigoroso, più vicino a Dio di quando lo pensavo con il solo apporto della mia natia cultura occidentale.

Come vuoi terminare l'intervista?

«Termino riportando un versetto della Divina commedia in cui un verbo in forma di infinito è l'unum che tutto comprende, nella separazione: “Amor, ch'a nullo amato amare perdona” (Inferno V 103)».





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