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Assegno unico, l’Europa apre una procedura di infrazione contro l’Italia


La procedura di infrazione, avviata a febbraio 2023, contestava la legge italiana (D.Leg. 230/2021) rispetto alla definizione dei destinatari. L'art. 3 del decreto definisceva i “requisiti soggettivi del richiedente” (il/i genitori, indicativamente), con 4 paragrafi in cui si includevano cittadini italiani, cittadini di Paesi UE, di Paesi non UE, soggiornanti, rifugiati ecc. Un articolo cruciale anche dal punto di vista politico, perché attraverso di esso si deve garantire che l'accesso all'assegno sia davvero “universale”, senza ingiusti privilegi (del tipo “prima gli italiani”….). Del resto vale la pena ricordare che la formulazione dell'articolo è stata elaborata durante il Governo Draghi, con Elena Bonetti Ministra della famiglia, mentre i rilievi dell'UE sono stati recepiti dall'attuale Governo Meloni. I rilievi della UE riguardano in particolare due punti (non banali, ma nemmeno così autoevidenti):

1) il requisito di residenza di almeno due anni (anche non continuativi) nel nostro Paese (art. 3 par. d), che penalizzerebbe i “lavoratori mobili UE”, che lavorano in Italia ma non vi risiedono;

2) il fatto che l'assegno dovrebbe essere erogato anche se i minori non risiedono in Italia (come invece prevede la nostra legge).

Il Governo Meloni negli scorsi mesi ha respinto principalmente i rilievi del febbraio 2023 dell'Unione Europea, e l'Unione Europea, ritenendo non recepiti i propri rilievi, ha deferito l'Italia (la sua legge sull'assegno unico, più precisamente) alla Corte di Giustizia – l'onore del vero in coerenza con un approccio consolidato, non solo verso l'Italia.

CHE DIRE? Non è mai bello ritrovare il nostro Paese sotto procedura di infrazione; a parte il possibile impatto economico di eventuali molteplici e la messa in discussione di una misura così attesa, rimane la sensazione di “essere fuori” da un processo di armonizzazione tra le nazioni europee, che ha sicuramente generato molti vantaggi. Per altro in alcuni casi i vincoli e le regole europee sembrano troppo burocratiche, rigide, incapaci di modularsi alle storie delle singole nazioni, su modelli nazionali a volte troppo distanti dal contesto italiano, e su alcune “infrazioni” ci sarebbe davvero da discutere, senza dover per forza essere accusati di essere antieuropeisti.

Detto questo, qualche breve commento sulla vicenda.

1. fa male vedere sotto attacco una misura innovativa e potenzialmente rivoluzionaria, la prima strutturale, universalistica e di lungo periodo indirizzata a tutte le famiglie e ai minori nel nostro Paese veramente. Nel merito si potrà e dovrà ovviamente discutere, ma sinceramente, dopo anni di lotta e di dibattito, vederlo messo in discussione dall'UE fa male. Certo, i governi italiani potevano e dovevano fare meglio di così (sia nella stesura della legge che nelle risposte ai rilievi UE del 2023): ma così si rischia di buttare via il bambino con l'acqua sporca!

2. Un secondo elemento riguarda la oggettiva difficoltà implicata dai rilievi dell'UE. L'art. 3 della nostra legge serviva infatti anche a dare la massima certezza della platea di destinatari, consentendo così di prevedere e controllare la spesa complessiva e il suo impatto sul bilancio pubblico (e questo sì che “ce lo chiede l'Europa”). Ma allargare a chiunque si trovi lavorare in Italia senza risiedervi con il proprio nucleo familiare, e attribuire l'assegno anche ai minori che non sono in Italia, rendere questo controllo molto più difficile – se non impossibile. Tanto più che al cuore dell'assegno sta l'ISEE, che è pressoché impossibile rilevare con affidabilità, in tanti Paesi esteri.

3. Molte delle obiezioni (non tutte) riguardano la libertà di movimento dei lavoratori e le loro condizioni di protezione sociale. Anche su questo qualche riflessione si potrebbe sviluppare; in particolare emergerebbe ancora una volta una delle “debolezze culturali” delle politiche familiari, soprattutto nel nostro Paese, vale a dire il loro essere subordinati ad un modello di welfare totalmente lavoristico (e spesso solo da lavoro dipendente), solo attento ai lavoratori. Invece le politiche per la famiglia (e per i figli, e per la natalità), sono politiche generazionali universalistiche, in cui le politiche del lavoro (doverose) dovrebbero essere di aiuto, e non di obiezione.

4. Un'ultima riflessione, più generale: se al posto di una misura assistenziale (come di fatto è l'assegno unico), si fosse adottata una politica fiscale familiare (come il quoziente familiare, o il FattoreFamiglia), questo tipo di rilievi e di possibili infrazioni non si sarebbe verificata, data la differente natura dei diritti e della titolarità. Del resto, la leva fiscale è il primo spazio di cittadinanza attiva, diritto e dovere di ogni cittadino, e riconoscere alla famiglia una rilevanza (se non una soggettività) fiscale avrebbe significato riconoscerle anche piena cittadinanza. Invece, l'assegno unico, in quanto misura assistenziale, conferma un modello erogatore in cui la famiglia “chiede”, e lo stato graziosamente eroga. Non soggetto attivo, costruttore della società, ma un interlocutore fragile, da assistere. Uscire da questo modello diventa sempre più urgente, se si vuole valorizzare, riconoscere e promuovere davvero la famiglia come cellula fondamentale della società.





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