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Parigi 2024, includere significa rispettare, anche la fede di chi ce l’ha



Non sarà per il buongusto che passerà alla storia la cerimonia d'apertura dei Giochi olimpici di Parigi 2024.

Succede, quando si sceglie di esagerare: andare sopra le righe funziona sempre, quando si tratta di far discutere, ma da un Paese che si propone nel mondo per la sua eleganza ci si sarebbe aspettati qualcosa di diverso.

Tutto sta nel decidere, del resto, se quello che si desidera accreditare come arte, e in genere si autodefiniscono artisti gli autori delle cerimonie d'apertura olimpiche, può accontentarsi di limitarsi alla provocazione o desidera anche elevarsi e farsi ricordare per la poesia, per la bellezza riconosciuta e riconoscibile universalmente, senza bisogno di didascalie.

L'olimpismo nella sua universalità si propone di parlare a tutti, di farsi messaggio di unità e condivisione, anche se è vero che le cerimonie sono storicamente, più o meno, spiccatamente nazionalistiche: vetrine attraverso le quali la nazione ospitante sceglie quale immagine di sé vuole dare al mondo. Non senza qualche contraddizione con il rigidissimo divieto dell'articolo 50 della carta olimpica per il quale: «Ogni forma di dimostrazione o propaganda, che sia politica, religiosa o razziale, è proibita in tutte le aree Olimpiche».

Ma si sa che finché i Giochi non sono formalmente aperti le cerimonie restano fuori da quel perimetro e mandano messaggi politici (nel bene e nel male) a profusione. Giusto sbagliato che sia, così va il mondo da quando il barone Pierre de Coubertin ha fatto rinascere i Giochi moderni su vestigia antiche.

Parigi 2024 non si è sottratta a questa tradizione, anzi: ha celebrato la propria storia, non senza cadere nel kitsch e nel grottesco di Maria Antonietta affacciata alla Conciergerie con la testa mozzata. Ha scelto del tutto legittimamente di mandare un messaggio di inclusione in ogni senso. Ma per questo sarebbero bastati la Marsigliese affidata alla statuaria figura di Axelle Saint-Cirel, mezzosoprano nata in Guadalupache ha cantato sotto la pioggia sul tetto del Grand Palais impugnando la bandiera come una Marianna nera, la sororité ei riferimenti all'amore non solo tra uomo e donna, attraverso i libri di Verlaine e di altri poeti francesi, nel contesto della biblioteca.

Magari avrebbero attirato comunque qualche critica, ma non avrebbero offerto chi la pensa diversamente. In democrazia è lecito esprimersi mettendo in conto il dissenso. Si sarebbe potuto, e forse dovuto, invece evitare l'eccesso, in nome di un malinteso concetto di laicità, di tirare in mezzo, malamente in una citazione distorsiva di dubbio gusto, un'immagine sacra come l'Ultima Cena di Leonardo Da Vinci, sapendo che il modo avrebbe potuto urtare la sensibilità religiosa di tante persone, perché includere significa rispettare, anche la fede di chi ce l'ha.

E in fondo, ripensandoci, anche il povero Leonardo, verso il quale la Francia ha il debito non piccolo di milioni di turisti attratti ogni anno Louvre dalla Gioconda, si sarebbe meritato di veder trattata con maggior garbo e senso storico un'opera come il Cenacolo che per la sua fragilità rappresenta tra l'altro nel mondo la delicatezza dell'arte.

Non ce ne vorrà Parigi 2024 se ieri sera, avendo visto più acqua che classe, abbiamo provato un filo di nostalgia per l'atmosfera da favola di Lillehammer 1994 e per il bambino nella barchetta di carta di Atene 2004: meno pretese, ma più poesia. Ma magari messo Parigi l'aveva puro nel conto.





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