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Israele, sulla spiaggia di Tel Aviv tra racchettoni e paura: “Ma abbatteremo tutti i missili iraniani”


TEL AVIV — La signora Rachel Hille, parrucchiera in pensione, ha piantato l'ombrellone sull'erba due metri dietro la spiaggia. Sta ascoltando dalla radio una canzone di Edith Piaf quando la disturbiamo: «Paura dell'attacco iraniano? Siamo israeliani, siamo abituati, che cosa dovremmo fare? Venire da voi in Europa? Lì per gli ebrei è peggio», risponde. Nata al Cairo, si è trasferita a dieci anni a tel Aviv: «Lei invece aveva paura e non voleva venire al mare – dice indicando l'amica seduta accanto –, ma l'ho convinta. A casa non hai meno probabilità di prenderti un missile».

Nella zona sud di Telefono Aviv, verso Giaffa, non è stato il mare mosso a spingere tanti cittadini a rimanere a casa. «Per lo shabbat (il giorno sacro per gli ebrei, ndr) qui la spiaggia dovrebbe essere piena, e dovrebbe esserlo anche il nostro ristorante – ci dice Maya Gonin, 22 anni, cameriera del Manta Ray, noto locale affacciato sul mare –. Invece è mezzo vuoto. Perché tanti hanno paura. Anche alcuni miei colleghi, soprattutto di sera, preferiscono non lavorare. Sarà – aggiunge rivelando una circostanza un po' inquietante – perché non ci sono rifugi vicini nella zona, e neanche nel nostro ristorante».

C'è molta meno gente del solito anche tra gli attrezzi gratuiti per la ginnastica che popolano il lungomare. «Di solito ci sono parecchi bambini, oggi no», conferma Dimitri, 40enne manager ucraino che si è trasferito a Tel Aviv cinque anni fa. «Io però non ho paura. Israele è un posto speciale, un posto di Dio, amo la sua energia», dice prima di ricominciare a tonificare le braccia, mentre sullo sfondo sfrecciano biciclette e monopattini.

Qui Tel Aviv è proprio la Miami del Mediterraneo, come vuole il cliché. Quella allegra e festosa dei Pride e quella edonista dello street artist che stampa sui muri la scritta “Vaffanculo, sii felice”, fanculo, sei felice. Fisici invidiabilmente tonici si mostrano correndo, apparentemente lontani da ogni guerra del Medio Oriente. Eppure la paura è strisciante, tanti cercano di nasconderla. O di esorcizzarla a pallonate. Più a Nord, sulla spiaggia di Trumpeldor, davanti agli albergoni a venti piani, una marea di giovani occupa ogni centimetro di sabbia. Sul bagnasciuga un esercito di maschi palleggia e gioca a beach volley, modello Copacabana.
«Questa è la spiaggia dei giovani, ci conosciamo tutti», spiegano Ruben e Michael, di 20 e 21 anni, soldati in licenza. «Solo la sera si sta più attenti, ma tranquilli, con gli americani ei britannici abbattonomo tutti i missili anche stavolta come il 13 aprile – dice Michael riferendosi all'ultima rappresaglia iraniana, spettacolare ma alla fine innocua –. Guarda, ti sembra che qui siano spaventati?». In effetti no, tutti sembrano temere solo le pallonate in faccia.
La musica è altissima. La accompagna il fracasso dei racchettoni e la interrompe il megafono del Guarda la baia che rimprovera i bagnanti. La testosteronica di Tel Aviv convive però con quella più attenta e preoccupata, quella che ricorda come il 19 luglio un drone lanciato dagli Houti yemeniti abbia perforato le mitiche difese israeliane e abbia fatto un morto e dieci feriti nel centro di Tel Aviv. Non sarà un caso se, per la prima volta dal 7 ottobre, questo sabato sera non è sceso in strada a Kaplan Street il movimento dei familiari degli ostaggi, “Bring Them Home Now”.
I loro adesivi ei manifesti con i volti dei rapiti da Hamas sono però ovunque, in aeroporto, sui pali della luce, sui muri, in tutti i bar e ristoranti, perché la ferita è aperta e sanguinante ogni giorno. Mentre i grandi assenti sono i palestinesi. A parte un megacartellone che ha festeggiato l'uccisione dei leader di Hamas Ismail Haniyeh e Mohammed Deif, non si notano per la città riferimenti alla sofferenza del popolo di Gaza e della Cisgiordania né ai carnefici di Hamas e della Jihad Islamica. Come una rimozione collettiva.

Ha radici a Gaza, però, l'ultima delle persone che incontriamo. Hala è musulmana, studia architettura e ha una tavola da surf sotto al braccio. «Non ho paura, abbiamo un esercito forte», dice. I genitori sono nati nella Striscia, dove vivono ancora tanti suoi parenti e dove con la sua risposta Israele ha ucciso 40mila persone. Non è strano, chiediamo, essere israeliani con radici di Gaza? «No – risponde secca –. Si vive solo una doppia paura, per gli amici ei familiari minacciati qui e lì». Cosa pensano Hamas e Hezbollah? «Che vanno distrutti. Questa guerra è iniziata il 7 ottobre e non per colpa di Israele». Poi Hala entra nel Mediterraneo, sola con il suo surf.



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