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Michele Placido parla del ‘suo’ Caravaggio, genio nella Roma criminale del suo tempo


Riccardo Scamarcio nei panni di Caravaggio

Quando entriamo nella casa romana di Michele Placido, non possiamo non notare alcune perfette riproduzioni di quadri del Caravaggio. Gli suggeriamo che sarebbe bello realizzare qualche foto con lui e le opere sullo sfondo. Ma Placido, da vero artista, guarda subito oltre. «E perché non le facciamo a Napoli, al Museo di Capodimonte, davanti a un vero quadro come la Flagellazione di Cristo?». Così sono sulla copertina del giornale. L'occasione di quest'incontro è l'uscita al cinema, il 3 novembre, di Caravaggio, 14° film diretto da Placido. La trama è quella di un giallo che ruota su una domanda: chi è questo Michelangelo Merisi (nome di battesimo dell'artista) che con le sue opere lascia tutti stupefatti per la profonda spiritualità che esprimono, e che usa però come modelli per dipingerle prostituta , ladri e vagabondi, oltre a condurre una vita dissoluta e violenta tanto da ricevere pure una condanna a morte per omicidio? Per scoprirlo, papa Paolo V incarica l'Ombra, una sorta di agente segreto del Vaticano, di condurre un'indagine per decidere se concedere o meno la grazia al pittore che nel frattempo è fuggito da Roma. La vita avventurosa di Caravaggio, proprio per questo motivo, è già stata raccontata al cinema e in Tv. Qual è secondo lei il punto di forza della sua versione?
«Con gli sceneggiatori e in particolare con Sandro Petraglia, con cui avevo collaborato per Romanzo criminale, abbiamo pensato di non fare una biografia convenzionale, ma di costruire appunto una sorta di romanzo criminale nella Roma del suo tempo ambientato nelle strade, nelle taverne, tra i miserabili che frequentavano la Confraternita di san Filippo Neri. Insomma in tutti i luoghi dove Caravaggio andava per cercare la verità del messaggio evangelico che poi riversava nei suoi quadri. San Filippo glielo dice: “Tu sei mezzo matto, ma ce cogli”. Secondo me era molto più mistico di altri illustri colleghi come Raffaello. Conosceva tutte le Sacre Scritture a memoria, anche se la sua fu una vita sciagurata».
La prima idea per questo film le venne quando era un semplice studente all'Accademia di arte drammatica. Vieni andò?
«Io, a parte il teatro, non sapevo nulla di arte. Avevo un compagno di studi, molto più acculturato di me, con cui ci trovavamo a Campo de' fiori, all'ombra della statua di Giordano Bruno. E lì mi parlò di un suo progetto: scrivere un testo teatrale che mettesse insieme due grandi personaggi che vissero nello stesso periodo, Giordano Bruno e Caravaggio. Non se ne fece nulla, ma quell'idea restò dentro di me e qualche anno fa ha iniziato a prendere la forma di un film».
Uno dei momenti emotivamente più forti del film è l'incontro mai avvenuto tra Caravaggio e Giordano Bruno nel carcere dove quest'ultimo attendeva di essere condotto al rogo.
«È un'invenzione, ma in quel periodo Caravaggio faceva davvero dentro e fuori dal carcere ed è comunque verosimile che abbia assistito alla morte di Bruno».
Tutti nel film chiamano il pittore Michele. Vieni lei…
«Mia mamma mi chiamò così in onore di san Michele Arcangelo che si festeggia il 29 settembre, data in cui nacque Caravaggio. In famiglia ci chiamiamo tutti con nomi che richiamano la Bibbiada mia sorella Virginia a mio fratello Beniamino, tanto che da noi si festeggia più l'onomastico che il compleanno».
Ma quanto c'è in lei della personalità di Caravaggio?
«Anche io ho avuto una formazione, diciamo così, mistica. Davanti a casa nostra c'era la cattedrale e da bambino tutti i giorni vedevo gente che andava a Messa o che partecipava a funerali. Mio zio era un prete missionario e quando tornava da noi restavo incantato dai racconti dei suoi soggiorni in Paraguay o in India. Per me era come un eroe e volevo diventare come lui. Così a 9 anni sono entrato in un collegio di preti missionari. Ricordo che ognuno di noi doveva avere un suo Santo protettore e io scelsi san Gerardo della Maiella, perché era uno delle mie parti, e come tutti avevano la sua figurina accanto al letto. Lo guardavo e lo riguardavo con la sua testa piegata a sinistra, le mani giunte. Una notte uscii dalla camerata e andai nella cappella, mi misi dietro l'altare e aprii il tabernacolo per vedere le ostie. Avevo già fatto la Comunione, ma sentivo fortissimo il desiderio di vedere da vicino il corpo di Cristo. Mi inginocchiai e restai lì fermo per mezz'ora. Poi chiuso tutto, ma qualcuno mi vide rientrare. Fecero una specie d'inchiesta e mi punirono con digiuni e mettendomi in ginocchio sui ceci, come si usava fare allora per educare. Alla fine, dopo tre anni, mi cacciarono perché ero molto indisciplinato, come Caravaggio. E, proprio come lui, mi è rimasta dentro questa sete di misticismo».
È questa sete che l'ha portata a interpretare in Tv Padre Pio?
«No, all'inizio non volevo, anche perché c'era già stata la versione con Sergio Castellitto. L'ho fatto per amore di mia madre che era devotissima, tanto che gli ultimi anni della sua vita si ritirò a San Giovanni Rotondo. Mi disse: “Michelino, hai fatto tante stupidaggini in Tv, fai questa cosa per me”. Così accettai, ma la sera prima di girare la scena in cui Padre Pio riceveva le stigmate entrai in crisi. Ho sempre pensato che quelle piaghe fossero dovute a una malattia e per questo non sapevo come avrei fatto a risultare credibile. Quella notte non riuscivo a dormire, finché mi sono tornate in mente le parole di mio padre quando da bambino radunava me, i miei fratelli e lei mie sorelle a tavola per pranzare: “Guagliò, forza: Padre Nostro, che sei nei Cieli…” . Mi sono ritrovato pieno di lacrime e ho capito che la mattina dopo, indossando di nuovo il saio di Padre Pio, avrei dovuto pensare a papà, alla sua mitezza, alla sua bontà. E così ho fatto. Quei valori antichi che papà e mamma mi hanno trasmesso mi sono tornati in mente anche la prima volta che ho invitato a cena Federica, mia moglie».
Racconti.
«La portai in un ristorante molto elegante e quando arrivò la prima portata lei, furtivamente, chinò la testa e si fece il segno della croce».





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