Economia Finanza

Il crollo di Tokyo. Un allarme per l'Occidente




L'improvviso crollo di lunedì 5 agosto di quasi il 13% della Borsa giapponese, il più grave dalla crisi dei mercati orientali del 1987, ha fatto da detonatore di un sentimento di paura che si è diffuso immediatamente in tutto il mondo. Fortunatamente, nei giorni successivi il fenomeno si è andato attenuando e ci troviamo oggi, probabilmente rassicurati da ciò, in un momento di trepida attesa. Subito sono fioriti commenti incentrati prevalentemente sui motivi contingenti che hanno scatenato l'evento.

Tutto è partito dal consistente rialzo dei tassi operato dalla Banca del Giappone, che ha spiazzato tutti coloro che avevano utilizzato yen per dotarsi di liquidità, da investire nel resto del mondo con un interesse più elevato, obbligandoli a disfarsi immediatamente di investimenti che a questo punto Erano divenuti per loro insostenibili, il cosiddetto fenomeno del carry trade. Contemporaneamente, sono giunte notizie dell'insufficiente aumento del numero degli occupati negli Stati Uniti e si è andato consolidando il rallentamento dell'attività produttiva in Germania, tanto da obbligare il governo tedesco a chiedere una moratoria nel processo di elettrificazione dell'automotive. Le prospettive generali delle imprese europee mostrano crescenti difficoltà in ragione del rallentamento del commercio internazionale causato da alcuni colli di bottiglia produttivi e dalle difficoltà dei trasporti marittimi attraverso il Canale di Suez. È risultato, poi, evidente come la concentrazione della ricchezza e del potere in capo alle sette maggiori imprese tecnologiche statunitensi stanno manifestando con evidenza una vera e propria rivoluzione nel mondo dell'economia: la divisione tra imprese in grado di produrre utili misurabili in trilioni di dollari e le altre, che riescono a stento a sopravvivere, sta creando una frattura, che potrebbe portare in breve tempo ad una tragica ammessa del numero dei produttori, con possibili riflessi indesiderabili sul numero degli occupati e sul tenore di vita di molte popolazioni. Senza trascurare il fatto che la perdita di potere degli Stati rischia di lasciare senza controllo l'espansione di quello delle imprese che, malgrado la recente sentenza americana con la quale è stata multata Google, imputata di comportamenti monopolistici, sembra essere ormai divenuta una tendenza inarrestabile . Per non dire dei venti di guerra sempre più tesi e foschi, che si vanno addensando all'orizzonte; e degli effetti sui listini azionari di una nuova consapevolezza maturata sugli eccessi di valorizzazione dell'Intelligenza Artificiale applicata alle attività economiche, motivo primo dell'ondata di vendite piovute sui titoli della galassia tech e semiconduttori.

Invece di valutare nel complesso tutti questi fenomeni preoccupanti, molti sembrano accontentarsi di constatare come in fondo i mercati finanziari hanno reagito bene al terremoto, che potrebbe forse essere agevolmente superato se solo la Federal Reserve procede rapidamente ad abbassare il tasso di interesse di riferimento, dando così fiato ad una ripresa dell'attività economica, che già per altro si colloca ad un buon livello, di Oltreoceano.

Sarebbe troppo bello. In realtà, non si tratta di un fenomeno temporaneo ma, molto più ragionevolmente, di una delle tante scosse sismiche di avvertimento che caratterizzano l'attuale fase storica. Fase caratterizzata da una rapida ridefinizione degli equilibri mondiali, che tutti, o quasi, in Occidente fanno finta di non vedere. Si tratta di un fenomeno che ha due dirette principali: una esterna e l'altra interna.

Quanto a quella esterna, la narrazione tende a sottovalutare i rischi dei conflitti armati in atto, relegandoli alla categoria di quelli regionali. Ma quando le regioni sono più di una, dal Medioriente, all'estremo Oriente finanziario all'Europa, e un domani forse al Venezuela, non si può fare a meno di constatare come il fenomeno si sia globalizzato. Il tutto è accaduto in conseguenza del venir meno della cosiddetta pax americana.

La graduale lasciata del peso economico degli USA e l'abbandono della sua politica di deterrenza militare hanno indotto i paesi ostili e molti di quelli non allineati a ritenere che fosse giunto il momento per scrollarsi di dosso il giogo dell'Occidente e far nascere un mondo nuovo. Non a caso, stiamo assistendo ad aggregazione ed alleanze che, sino a poco tempo fa, erano assolutamente impensabili. Il tutto nell'incertezza procurata dall'attesa delle prossime elezioni presidenziali americane.

Ma c'è una ragione altrettanto preoccupante che fa ritenere che il crollo del 5 agosto non sia figlio di un occasionale episodio di speculazione finanziaria, ma una delle diverse manifestazioni dell'esistenza di una condizione di difficoltà strutturale interna a molti paesi occidentali. Si tratta del fatto che il welfare state, nella latitudine in cui è attualmente applicato, risulta sempre meno sostenibile sotto un profilo economico. Non è solo l'invecchiamento della popolazione e la lasciata delle nascite, che portano all'esplosione della spesa sanitaria e al disequilibrio del sistema pensionistico, ma anche, e forse soprattutto, una realtà sociale profondamente mutata. In una fase in cui gli operatori economici, in essi comprendendo sia le imprese sia i prestatori d'opera, sono disposti a svolgere la loro attività esclusivamente se sono stimolati da interventi pubblici diretti ad incentivarla o da agevolazioni fiscali per il settore o la categoria nel quale lavorare, il mercato risulta sostanzialmente venir meno. Le scelte economiche non divengono più dalla convenienza oggettiva, ma dalla capacità di impatto sui sistemi politici. E, come dimostrare il fallimento dei paesi di economia di comando, le scelte politiche non sono mai in grado di sostituire quelle liberamente espresse dagli individui: creare sprechi o carenze nell'offerta di beni e servizi.

In sostanza impoveriscono quei paesi che privilegiano inseguire il consenso immediato, piuttosto che obiettivi di più lungo respiro. Il che, purtroppo, sembra essere divenuta la caratteristica prevalente, almeno in Europa. Una strada che, col passare del tempo, non può che portare ad un inarrestabile declino.



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