News

Il cappellano del Beccaria: «Il ragazzo mi ha chiesto di confessarsi. Mi ha detto: ‘Tu sei quello di ‘Non esistono ragazzi cattivi’»


Il cappellano del carcere minori Beccaria di Milano, don Claudio Burgio

«Appena mi ha visto, ha voluto subito confessarsi. Ho trovato un ragazzo fragile, chiaramente provato ma molto lucido e in grado di comunicare. Mi ha detto questa frase: “Tu sei quello di 'Non esistono ragazzi cattivi'” e poi l'ho confessato. È stato un incontro molto intenso».

Don Claudio Burgio è il cappellano del carcere minorile Beccaria di Milano dove si trova il diciassettenne che nella notte tra sabato e domenica scorsi ha ucciso il padre, la madre e il fratello di 12 anni a Paderno Dugnanonell'hinterland di Milano. «Il ragazzo ha chiesto di confessarsi appena mi ha visto», racconta don Claudio con un filo di commozione, «poi dopo la confessione abbiamo parlato ancora. Sui giornali era uscito il ritratto di un adolescente con difficoltà a comunicare ma io questa difficoltà non l'ho vista. Questa vicenda scuote tutti, compreso me che in vent'anni da educatore a contatto con ragazzi dal vissuto difficile, ne ho viste tante».

“Non esistono ragazzi cattivi” è il motto di don Claudio che lo ha messo anche nel suo profilo WhatsApp ed è anche il titolo di un libro, pubblicato nel 2015 con la prefazione di don Gino Rigoldi, in cui ha raccontato la sua esperienza di educatore al Beccaria tra crisi e rinascite . «Non so come mai conoscesse questo motto, probabilmente mi ha visto in uno dei tanti incontri che faccio nelle scuolee», dice il cappellano, «questo ragazzo, come tanti altri che incontro qui in carcere e nella comunità Kayros, ha dentro un dolore profondissimo che non riesce a decifrare ea vivere. la nostra società chiede sempre di essere performanti e ha la pretesa di avere sempre una risposta su tutto, ma sono risposte banali che non solo non colmano il vuoto ma neanche lo sfiorano».

Don Claudio fa una premessa: «Non mi avventuro in analisi psicologiche o sociologiche dopo aver visto il ragazzo una sola volta perché sarebbe sbagliato e rischierei di scivolare nella banalità e nella retorica. Quello che mi sento di dire è che in questi casi ci vuole un lungo silenzio. Unoepoca, una sospensione del giudizio, perché è troppo drammatico quando accaduto da poter essere spiegato subito come noi magari pretendiamo di fare. Il ragazzo non è in grado di dare una spiegazione, noi nemmeno. Non è pensabile capire oggi il perché di questo gesto. Bisogna avere pazienza, aspettare il tempo che sarà necessario».

Che impressione ha ricavato dopo questo incontro?

«Si tratta di un ragazzo che con parola abusata definirei “normale” all'interno di una famiglia “normale” che non ha nulla a che fare con un vissuto di disagio che può sfociare nel bullismo, nell'uso di stupefacenti o nella violenza, come accade ad altri ragazzi che incontro e che seguo. Quello che ho percepito, e che riscontro in tanti ragazzi che vivono con me in comunità, che c'è un vuoto interiore profondo. Molti di questi adolescenti hanno domande molto forti sul perché del dolore e della sofferenza ma sono analfabeti dal punto di vista emotivo. Non riusciamo a decifrare queste emozioni, a ordinarle nella propria esistenza e di conseguenza neanche a viverle».

Gli adulti non sono più un punto di riferimento?

«No perché l'adulto non è in grado di dare risposte che li soddisfino. Anche noi preti non riusciamo più a dare risposte convincenti, credibili, provocatorie nel senso buono. Diamo sempre più risposte dogmatiche, insegniamo la fede come una serie di precetti da osservare e basta. Anche noi come Chiesa balbettiamo di fronte ai grandi interrogativi sulla vita».

La radice è il maschio interiore.

«Sì. C'è chi come la maggior parte dei ragazzi esterna questo vuoto con gli stupefacenti o condotte violente e chi, come in questo caso, ad un certo punto implode e compie un gesto di questo tipo. Il male interiore è profondo, non è spiegabile, c'è una sofferenza che prende proprio dentro, è un vuoto che scava dentro l'abisso. Stando con i ragazzi, mi accorgo sempre di più che noi adulti non siamo abituati a entrare in profondità, forse perché vogliamo addolcire loro un'esistenza già difficile, forse perché temiamo di avventurarci con i nostri figli in discorsi profondi, esistenziali. Ho la sensazione, anzi la certezza, che questi ragazzi non sanno a chi rivolgersi».

L'ha colpita il fatto che gli ha detto quella frase sui ragazzi cattivi?

«Sì e mi ha colpito il fatto che associasse me come cappellano a quella frase».

Nell'interrogatorio in cui ha confessato il triplice delitto, il ragazzo ha detto che si sentiva “oppresso” all'interno della propria famiglia.

«Lo ha ripetuto anche a me. Un senso di oppressione e un'estraneità non solo per quanto riguarda la famiglia ma in generale, anche nelle altre relazioni sociali. Un sentimento che io ho percepito non come una colpa che lui attribuisce agli altri ma al fatto che a certe sue domande esistenziali nessuno è in grado di rispondere».

Cosa dice questa vicenda a chi, come educatore o genitore, si sente smarrito.

«Siamo di fronte a un vuoto educativo che compensiamo, ad esempio, con una risposta medica. Questo è un altro grande problema. Quando uno agisce in un certo modo o è instabile o è pazzo. Anche le parole che adoperiamo per discutere di questi casi arrivano tutte dal gergo medico: follia, psicofarmaci, calmanti. È un modo tragicamente sbagliato di intendere le domande profonde dei ragazzi».





Source link

Leave a Reply

Your email address will not be published. Required fields are marked *