Economia Finanza

Il traduttore delle Ong: «A Jenin i dieci giorni peggiori della mia vita»


«Sono stati i peggiori dieci giorni della mia vita. Siamo rimasti chiusi in casa. Senza acqua corrente, senza cibo, senza elettricità. Senza poter comunicare con nessuno. Al buio, a rannicchiarci contro il muro ogni volta che i razzi sparati dai droni ei colpi dei carri armati cadevano così vicino che dal soffitto cadeva l'intonaco, il lampadario dondolava e le mura sembravano tremare».

La voce ancora scossa, Ismail Hossam racconta la grande operazione militare israeliana terminata venerdì mattina nel turbolento campo profughi di Jenin, nel nord della Cisgiordania. «I soldati sono andati via questa mattina. Sono arrivati ​​subito i soccorritori, stanno rimuovendo le macerie e allacciando l'elettricità. È ritornata Internet». Ismail racconta di aver finalmente percorso le vie del campo profughi. «Hanno distrutto intere facciate degli edifici, devastato decine di negozi, sventrato le strade coi bulldozer».

Agli occhi di buona parte dei palestinesi Jenin è la città simbolo della resistenza contro Israele. Tra gli stretti vicoli del suo campo profughi, che oggi ospita oltre 25mila persone, la presenza di Hamas e della Jihad islamica è così forte che questa propaggine di case abbarbicata su una collina si è meritata l'appellativo di «Piccola Gaza della Cisgiordania». Per il Governo israeliano è sempre stato un covo di terroristi, l'epicentro da cui in passato sono partiti molti degli attacchi kamikaze contro Israele e da cui provengono ancora gli autori degli attentati. Gli israeliani l'hanno presa di mira decine di volte.

Ismail lavora come traduttore, per le organizzazioni non governative, e da alcuni mesi per il Governo palestinese. Nel maggio è stato colpito pesantemente al petto da un cecchino israeliano mentre si recava al lavoro. Durante una delle tante incursioni israeliane. È stato ricoverato a Nablus, il dolore della ferita ancora oggi non gli dà tregua. Porta due piccoli occhiali tondi, ha i modi gentili, il tono di voce morbido. Ismail è un giovane invecchiato. I suoi 25 anni sono troppo pochi per ricordare il grande assedio di Jenin del 2003 e la distruzione del campo. Ma sono abbastanza per aver visto coi suoi occhi così tante operazioni israeliane da ragionare con un cinismo e una rassegnazione ingiusti per un giovane della sua età.

«È iniziato tutto dieci giorni fa – racconta -. Sono arrivato verso le 11 di sera. I primi giorni particolarmente gli scontri a fuoco sono stati violenti. Poi il fuoco della resistenza è calato. Al terzo giorno non avevamo già più l'acqua corrente e l'elettricità. Non eravamo preparati ad un'operazione del genere. Mai avremmo pensato a un assedio così lungo. Non avevamo fatto scorte. Gli alimenti in frigorifero sono presto andati a male».



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