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L'Africa non è tutta un safari. Esistono mille facce diverse




Dipo Faloyin è nato a Chicago, cresciuto a Lagos e lavora a Londra come giornalista. Ha scritto un saggio, L'Africa non è un paese (Altrecose, pagg. 472, euro 22; lo presenterà domani a Mantova, al Festivaletteratura, ore 12.15 e lunedì a Milano, ore 19, all'ex Convento Santa Maria della Vittoria) dove dichiara: «Io non sono genericamente africano. Sono nigeriano. E questo libro esprime il mio punto di vista di nigeriano».

Dipo Faloyin, nella Prefazione si dice che il titolo sia già «metà del libro».

«È così. L'Africa non è un Paese non è una frase inventata da me: molti lo dicono, come risposta a chi parla dell'Africa genericamente, in modo negativo. Invece l'Africa è un continente, pieno di diversità, dove esiste di tutto e non una cosa soltanto: storie di gioia e di felicità, come di sofferenza e di dolore; è un luogo dove la gente viaggia, va in vacanza, porta i figli a scuola, si incontra a cena con gli amici, va al cinema…».

Quanto «Africa» esiste?

«Esistono cinquantaquattro Paesi, un miliardo e quattrocento milioni di persone, oltre duemila lingue. La Nigeria è un esempio di questa complessità: ci sono centinaia di gruppi etnici diversi, ma tre dominanti, per cui si può dire che esistano almeno tre regioni e tre versioni diverse della Nigeria. Se guardiamo alla ricchezza, o alle classi sociali, c'è moltissima stratificazione. E così è l'Africa: non esiste un solo modo in cui guardarla, ma molti; e, più ci guardi dentro, più trovi».

Per esempio?

«Se vuoi fare il safari, c'è il safari; puoi visitare una città divertente, oppure un villaggio rurale; puoi dare vita a un nuovo business. In molte immagini stereotipate, però, ci si ferma agli animali e ai safari e le persone diventano un contorno».

Che cosa trasmettono gli stereotipi?

«L'idea che le persone, in Africa, possano sperare di essere felici solo grazie all'Occidente che ci viene a salvare da qualche problema che noi non siamo in grado di risolvere. Che le persone siano incapaci di badare a loro stesse; che non ci sia gioia o, se c'è, che ci sia solo nonostante la sofferenza».

Lei scrive che queste immagini, pur usate nell'intento di aiutare, spesso sono dannose.

«Quando pro certeponi immagini a ripetizione come la rappresentazione di un intero continente, può essere che tu spinga qualcuno a donare dieci euro, ma non certo ad andare in vacanza in quel Paese; mentre è proprio in vacanza che la gente spende migliaia di euro. E non lo spingi nemmeno a comprare una casa o ad iniziare una attività. Un esempio è l'Uganda e l'impatto del film Kony 2012».

Il film denuncia Joseph Kony, capo di un gruppo che terrorizzava, uccideva e abusava i bambini, a volte trasformandoli in soldati.

«Il film fu visto da centinaia di milioni di persone e il risultato fu che, per la prima volta da anni, il turismo in Uganda crollò».

Che cosa vede nei prossimi anni?

«I giovani: la popolazione è in continuo aumento. Poi: il settore finanziario e quello tecnologico; il cinema di Nollywood; le protesta».

La Cina ha questa influenza?

«È più che altro una influenza specifica: a Lagos, o nella Repubblica democratica del Congo. Al momento, quest'ultima è quella che più sta lottando contro una serie di istituzioni occidentali che cercano di sfruttare le sue risorse nazionali. Altri Paesi flirtano con la Russia».

C'è qualche situazione in evoluzione?

«Niger, Burkina-Faso e Mali stanno cercando di mandare via i francesi e di ridurre la corruzione: credo sia interessante vedere se ce la faranno».

Il passato coloniale ha ancora un impatto?

«Ha a che fare con la fondazione dei Paesi: bisogna capire il passato per lavorare in modo efficace nel costruire il futuro. I Paesi africani sono stati costituiti per fallire: i confini sono stati tracciati dai colonizzatori solo per trarre il massimo profitto».

In che senso?

«Le colonie britanniche sono state istituite mettendo insieme etnie rivali, proprio al fine di creare un mondo di violenze e di lotte per il potere. Le mappe lo dimostrano: è difficile sentirsi cittadini di una nazione, costruire una identità unificata e un sistema politico in soli sessant'anni. Anzi, se consideriamo tutto ciò, quella di questi Paesi è una storia di successo».

Quali sono le diverse «Afriche»?

«Dipende da come un Paese è stato colonizzato. L'Africa occidentale ha subito la politica della divisione dei gruppi: il risultato sono le lotte per il potere associato alla violenza. Un altro caso è quello di Sudafrica e Kenya, dove poche famiglie possedevano tutte le terre. Infine, il Botswana: un esempio di successo, di crescita economica e buon governo».

In Botswana non ci sono state divisioni etniche. Al contrario del Ruanda.

«Il Ruanda è interessante per quanto riguarda la scelta fra democrazia e autoritarismo: quale forma è più efficace in una certa epoca? Il Paese ha attraversato una guerra civile terribile e poi è emersa una figura come Paul Kagame, che ha consentito una crescita economica straordinaria e ha garantito la stabilità ma che, da alcuni, è considerato un leader autoritario».

E la Nigeria?

«È l'esempio perfetto dell'impatto della politica britannica della divisione dei gruppi. Abbiamo leader cresciuti nell'idea che continuare soltanto il potere ei soldi e che lottano per averne sempre di più, senza preoccuparsi delle persone e di come governare il Paese. Eppure, allo stesso tempo, a livello culturale la Nigeria è sempre più influente nel mondo».

Si parla di Lagos come della metropoli del futuro.

«È una città affascinante, di venti milioni di persone, sempre in movimento: una città che balla. Però deve essere ridisegnata per diventare una metropoli».

Il suo libro si ispira al saggio di Binyavanga Wainaina Come scrivere dell'Africa e alla sua satira esilarante degli stereotipi sul continente. È ancora così?

«Le sue descrizioni del bambino africano seduto all'aperto senza niente da fare, in attesa di essere salvato, sono qualcosa che troppe persone ancora ritengono vero. Il bambino affamato, la povertà e la sofferenza esistono, ma non rappresentano 1,4 miliardi di persone».

Che cosa pensa delle buone intenzioni occidentali

e del politicamente corretto?

«Io voglio che le buone intenzioni si accompagnano sempre ad azioni responsabili. Imparare e impegnarsi nella regione per come è davvero e lasciare da parte le proprie congetture…»



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