News

«Il famiglicidio di Paderno Dugnano ci interroga sulla qualità delle nostre relazioni»


«Sempre l'uccisione degli innocenti ci lascia senza parole, ci toglie il fiato. E tuttavia, in questa vicenda, la morte degli innocenti è ancora più sconvolgente e scabrosa, perché viene per mano di un altro innocente; e soprattutto non è avvenuta nella “logica” di un movimento che comunque non avrebbe potuto spiegare tale ferocia contronatura ma che, nella nostra ricerca di spiegazioni, avrebbe rappresetato qualcosa a cui poterci attaccare nella disperata ricerca di senso, di logica appunto». Non si dà pace la pedagogista Chiara Scardicchio davanti ai fatti drammatici di Paderno Dugnano, il paese alle porte di Milano dove nella notte tra sabato 31 agosto e domenica 1 settembre Riccardo C. ha ucciso con 68 coltellate prima il fratellino, poi la madre e il padre. «In questo caso ci ritroviamo inermi davanti all'evidenza dell'assurdo di un ragionamento secondo il quale la felicità sarebbe potuta arrivare eliminando le persone più prossime, eliminandole addirittura togliendo loro la vita, non scegliendo per esempio di andarsene appena possibile. C'è un “ragionamento” che, innanzitutto, occorre studiare. Perché questo ragazzo che pur non ha nessun deficit di tipo cognitivo, anzi sappiamo dal suo curriculum scolastico che salvo l'unica materia ricevuta in debito quest'anno non ha mai avuto difficoltà, questo ragazzo dunque pur non avendo nessun ritardo di ragionamento ha però compiuto un'azione che non sta nella logica. Penso sia molto importante partire da qui».

Cosa c'è dietro un gesto inspiegabile?

«Rientra, secondo me, nei fenomeni che da un po' di tempo gli studiosi chiamano di “demenza digitale” e che hanno a che fare proprio con un impoverimento del pensiero. Addirittura con una sorta di annebbiamento che ci porta a confondere i processi di causa ed effetto e, per esempio e soprattutto, a non saper ragionare sulla complessità di quello che accade, mossi soltanto dal “qui e ora”, dalla spinta che non si sa governare. La confusione è da correlare a una sofferenza che è propria dell'adolescenza, ma a mio avviso soltanto in parte. Direi che è un tipico tratto dell'adolescenza quello di provare un sentimento di estraneità nella propria famiglia, è un elemento fisiologico che non va patologizzato e va narrato ai genitori così come ai figli come un passaggio di differenziazione necessario nel processo di costruzione identitaria».

La distanza dalla famiglia è un tema ricorrente per gli adolescenti.

«Pensare che posso essere felice lontano dalla mia famiglia è un tema frequente se non addirittura comune a tutti coloro che sono stati adolescenti; qualcuno è un pensiero che ha coltivato più a lungo, qualcun altro soltanto poche volte ma è legittimo che avvenga. Anzi, è la mancanza di conflitto a doverci preoccupare, perché significa che i figli non hanno possibilità di differenziarsi. Quello che in questa storia è per tutti noi spaventoso, è però l'incredibile passaggio da un'immagine (“voglio che voi non esistiate”) alla sua trasposizione in realtà mediante un atto violento, di cui non si ha percezione. Il ragazzo ha detto successivamente, così ci riporta la cronaca, “non avrei pensato mai che soffrire così tanto” Ed è sincero: poichè mi sembra che qui, insieme a quello che qualcuno legge giustamente come ”deficit di empatia”, ci sia anche , allora, un deficit di ragionamento: perché è in loop il pensiero che rimane bloccato nella difficoltà di distinguere reale e immaginale. Ovvero: non riesce a stare nella realtà e nel proprio mondo interno. Perché è di questo stiamo parlando, saper stare nella vita reale e nella propria stanza interiore, abitare mondo interno e mondo esterno, entrambi fatti di piacere quanto di dolore. ».

La pedagogista Chiara Scardicchio



Vieni a imparare ad abitare il proprio spazio interiore?

«Come abbiamo imparato noi a farlo e stiamo da adulti ancora imparando a farlo: attraverso la narrazione con un interlocutore significativo che ci consente di compiere l'operazione più importante nello sviluppo psichico che è “il guardarsi da fuori”. Il neuroscienziato Daniel Siegel lo chiama Vista mentale e corrisponde alla nostra “capacità di coscienza”. Corrisponde all'attivazione della corteccia cerebrale, della parte più evoluta nello sviluppo umano, e corrisponde alla presenza a se stessi e alla realtà. Perché quello chea questo ragazzo in quel momento è mancato, e ogni psichiatra può confermarlo, è l'indice più importante della salute psichica: l'esame di realtà. La grande domanda è “Perché? Perché un ragazzo che non aveva problemi economici, che aveva una famiglia che gli ha offerto tanto in termini non soltanto materiali, ma anche di affetto, si ritrova a vivere questo non senso?”».

Perché?

«Probabilmente – ed è giusto che questo resti un probabilmente, ovvero i una domanda che ci deve interrogare e non una certezza arrogante – a questo ragazzo accade quello che sempre più frequentemente accade agli adolescenti ed anche ai bambini che trascorrono tantissime ore davanti agli smartphone. “evaporazione del sè”- La perdita di uno spazio in cui un interlocutore reale e la vita reale consentono di attraversare i mostri che ogni vicenda sperimentazione interna, la relazione simbiotica con uno smartphone a danno delle relazioni di scambio narrativo profondo con i pari e con uno o adulti più simboli, genera la “perdita di sé” (la riconosciamo dalle espressioni “non volevo farlo”, “non ero io”, “non l'ho fatto apposta, è successo”) e, nel caso di soggetti in età evolutiva, la mancanza costituzione del sé. Capisco che non è immediata la correlazione tra abuso degli smartphone e un atto simile. È però davvero importante che cominciamo a mettere a fuoco come la vita mediata da app e social altera i circuiti dopaminergici e altera le loro, e le nostre, risposte emotive, cognitive e comportamentali2.

Allora cosa possono fare i genitori?

«Possiamo imparare a non chiedere soltanto se hai studiato, ma anche che film ti piace, mi fai ascoltare un po' della tua musica, possiamo dir loro “sai che anche io sono stato triste ea volte lo sono ancora”. Un dialogo autentico passa attraverso l'offrirsi, attraverso una umanità che che è autentica e che spesso i figli non conoscono dei genitori. A noi genitori è stato chiesto un compito enorme soprattutto in questo tempo e allora ci affanniamo e ci affatichiamo nell'offrire il benessere: ma tutto quello che possiamo comprare per loro non è sufficiente. Occorre anche riconoscere, e non è il caso di questa famiglia perché non li conosco e non potrei mai permettermi un'osservazione del genere, ma rispetto a quello che ci restituiscono le ricerche scientifiche condotte sulle relazioni educative, occorre con altrettanto coraggio riconoscere che tanti genitori non riescono più a offrire nessun tipo di regola ai figli e frequentemente giovani, adolescenti, bambine e bambini sono loro a dire ai loro genitori cosa devono fare, in che modo devono soddisfare i loro bisogni. Ed è proprio questo processo a far sì che manchino poi nella costituzione del nucleo identitario, nel costituendo nucleo identitario, i processi fondamentali della sanità psichica, della felicità, della salute, che sono i processi di autoregolazione cognitiva ed emotiva. Se andiamo a prendere un testo di psicologia scopriremo che anche la resilienza, che ormai è un'espressione che utilizziamo tutti con facilità, non corrisponde al “ce la farò, ce la farò, ce la farò”, ma corrisponde alla capacità di autoregolazione cognitiva ed emotiva, cioè a saper distinguere l'immaginale dal reale, a saper stare nella realtà presenti a se stessi e all'altro e al non farsi catturare da un pensiero che è veloce, polarizzato, bianco o nero e che per questo conosce solo due modalità: paura o rabbia, che sono le due modalità attraverso cui funziona il nostro tronco encefalico in situazioni che avverte come pericolose, non facendo ricorso invece alle risorse della coscienza».

Smartphone e social che pervadono anche la nostra vita non solo quella dei giovani.

«La percezione di situazione pericolosa, di minaccia, è sempre più diffusa anche tra gli adulti come corrispondente anche a situazioni che non sono di effettivo pericolo ma vengono vissute come tali perché la sovraesposizione agli schermi, ai tantissimi input che arrivano attraverso lo scrolling, creano una sorta di allerta perenne, che quindi incide sulla risposta corporea emotiva e cognitiva sviluppando risposte che sono o settate su un vissuto di paura – e quindi gli attacchi di panico ei tentati suicidi – oppure su vissuti di rabbia e quindi episodi di violenza anche senza motivo, ma per soddisfare bisogno di “scarico”».

Come possiamo trasformare questa tragedia in occasione di crescita per le nostre famiglie?

«La nostra possibilità è rallentare: cercare per loro e per noi spazi di raccoglimento interiore. Il che è assai diverso dal rimuginare. Abitarsi forse è l'altro nome della preghiera. Una preghiera che non è soltanto parlare a Dio per chiedergli di esaudire qualcosa, ma è fermarsi, guardarsi da fuori, chiedere aiuto, cercare uno specchio. Forse abbiamo bisogno di tornare a parlare di formazione delle coscienze. In termini neuroscientifici questo significa che abbiamo bisogno di moltiplicare le situazioni in cui bambini, adolescenti, giovani e noi stessi possiamo imparare a pensare e sentire oltre la furia del “qui e ora”: attraversare i giardini ei boschi interni, certamente talvolta anche con paura e rabbia che sono fisiologiche, ma trasformandole in veglia interiore, che è quel processo in cui noi ci chiediamo chi sono, dove sto andando, e che non riguarda solo l'età evolutiva ma tutta la vita r».

Come uscire da questo strazio?

«Un famiglicidio, uso con dolore questa espressione, è un'evidenza che ci porta davanti a questioni di salute relazionale, su cui ogni famiglia, indipendentemente dal ceto, dalla cultura, dallo stipendio in banca, è chiamata a interrogarsi per prendersi cura non solo di sé e del proprio nucleo ma anche del futuro della comunità intera. Da questo strazio non si può uscire da soli perché nessuno può essere genitore da solo. Non si è un buon genitore per doti personali o talenti propri, ma solo e soltanto se disposti anche noi a evolvere, ea farlo mediante il faticoso, eppure fertile, tocco con l'altro. Non si è buoni genitori perché si dice o si fa la cosa giusta, ma solo se ci si interroga su quello che si dice e si fa. E poi si ricomincia, ogni giorno. E credo che la fatica più grande per una donna e un uomo sia proprio questo accettare di non essere compiuti, ma di costruirsi ancora, anche se non più giovani, attraverso il coraggio di stare davanti a uno Specchio. Lo specchio della nostra coscienza/corteccia cerebrale, lo specchio dei nostri figli, lo specchio delle persone a cui abbiamo bisogno di chiedere…. che ci mettano in discussione/“in croce”».





Source link

Leave a Reply

Your email address will not be published. Required fields are marked *