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Andrea Zorzi: ‘Vincere una partita non rende vincenti e perderla non è un fallimento’, (parola di ‘fenomeno’)


Zorzi oggi in un fotogramma di Generazione di fenomeni – La miglior squadra di pallavolo del XX secolo, di Paolo Borraccetti Raiplay

Andrea Zorzi, in arte “Zorro” è stato uno dei simboli della generazione dei “fenomeni” della pallavolo italiana anni Novanta. Conoscere il rimpianto di aver perso l'oro olimpico per una palla e ammettere di essere riuscito a farci pace solo con il tempo. Ha avuto successo nello sport ea teatro, ma ha qualcosa da ridere su questa società permeata della cultura della vittoria a ogni costo. E se lo dice uno due volte campione del mondo, eletto giocatore dell'anno 1991 dalla Federazione internazionale di pallavolo forse vale la pena di ascoltarlo, mentre si spende a diffondere messaggi che vanno oltre lo sport. A proposito, sarà alla festa del Csi il14 settembre a Milano e dal 20 a 22 sarà tra gli ospiti di Donna volley 1522, torneo della bergamasca per sensibilizzare contro la violenza di genere.

Zorzi, è vero che i campioni non si nascono ma si diventano?

«Tema complesso. Le cose sono cambiate nel tempo, la mia storia non fa più così testo. Io ho iniziato a giocare a pallavolo per caso: a 16 anni al liceo classico l'insegnante di educazione fisica vedendomi molto alto con mani enormi, mi ha suggerito di fare pallavolo, in un'epoca in cui tra sport di base e alto livello c 'era più collegamento. Oggi questa idea un po' romantica è un po' tramontata, negli sport di squadra il livello tecnico si è alzato molto, mentre si è ridotta la finestra di ingresso ai settori giovanili dell'alto livello: la precocità si è accentuata, e perché un ragazzo dotato fisicamente possa incrociare in età più maturazione uno sport e farne la propria strada, occorre che abbia già doti tecniche, motorie più avanzate di come è capitato a me. Man mano che passa il tempo l'idea dello sport immaginato come una piramide, prendo un esempio caro al presidente del Csi Achini, per cui più larga è la base più è probabile che cresca il vertice, mostra sempre minore valenza scientifico-statistica. Questo ha generato una progressiva polarizzazione e una separazione tra sport di vertice e sport per tutti».

Com'è stato nel suo caso, invece, passare da studente a “fenomeno” in pochi anni?

«Abastanza imprevedibile, esaltante e al tempo stesso complicato: è stata certo esaltante la scoperta che la pallavolo poteva essere per me non solo un divertimento ma una grande opportunità per girare il mondo e conoscere persone fantastiche, ma ci si deve poi confrontare con la complessità di uscire dall'ambiente familiare, scoprirsi improvvisamente popolari, guadagnando anche dei soldi: si tratta di ricostruire la propria identità fuori dal campo e non è un passaggio semplice. Non vale solo per i singoli ma anche per le squadre: compresa la Nazionale italiana cosiddetta dei fenomeni: se vincere è difficile, confermarsi al vertice lo è molto di più, occorre restare concentrati, non montarsi la testa».



È stato tra i promotori, oltreché tra i protagonisti, del documentario che sta girando su Raiplay Generazione di fenomeni, dedicato a quell'Italia della Pallavolo anni Novanta, che cosa l'ha convinta a sostenerlo?

«A differenza di tanti miei compagni diventati bravissimi allenatori, su tutti Andrea Giani, Lollo Bernardi, Fefè De Giorgi, non sono più da molti anni quotidianamente concentrato sulla pallavolo da dentro il campo o dal bordo, ma occupandomi di giornalismo l'ho osservata e studiata di più da fuori: ho avuto modo di intervistare molti ex compagni, di confrontarmi con amici scrittori e registi, di prendere atto che gli anni Novanta sono ormai sufficientemente lontani da appartenere alla storia da meritare un racconto: la cosa importante per me era che uscisse, spero che ci siamo riusciti, un racconto collettivo in cui non emerge il singolo, la tendenza individualistica: è vero che Giani, Lucchetta, Bernardi, Velasco sono singolarmente fenomenali ma era importante raccontare l'insieme di quel gruppo di grandi campioni in uno sport ad altissima interdipendenza, che non prevede l'azione individuale come soluzione, dove il regolamento ti impone di passare la palla, anche se poi ciascuno porta la responsabilità del proprio errore».

È rimasto tra di voi lo spirito di squadra?

«È rimasta una profonda amicizia, ma quello che ci ha permesso di sperimentare sul campo di pallavolo il piacere di fare parte di una squadra appartiene al passato, ciascuno può provare a replicarla con altri nei suoi contesti attuali, soprattutto se sono squadre come capita a chi allena, ma non è più consuetudine quotidiana tra noi».

Ha fatto finalmente pace con l'argento di Atlanta?

«Finché sei giocatore, è bene che tu sia concentrato sugli aspetti pratici: sulla vittoria, su cosa puoi fare per migliorare. Per un po' di anni per me quell'argento è stato una sconfitta. Poi l'età il tempo, la vecchiaia, cambiano il colore dei ricordi: oggi sono ancora consapevole che l'oro olimpico perso all'ultima palla è un'occasione non colta fino in fondo, ma prevale in me il senso di aver fatto una bellissima esperienza con i compagni e anche il rispetto di quella medaglia d'argento olimpica: sarebbe una presunzione non considerarla qualcosa di cui andare fieri».

Parigi 2024 ha segnato per singoli di quella squadra ricorsi storici: Giani ha vinto l'oro da Ct della Francia, Velasco e Bernardi lo hanno vinto allenando la Nazionale femminile, Fefè De Giorgi ha perso da Giani ai quarti con i maschi. Come ha vissuto tutto questo?

«Con molta emozione e con grande partecipazione. Giani è come fosse il mio fratello minore. Immagino la gioia di Giani, Bernardi, Velasco per le medaglie d'oro conquistate da allenatori, ma non ci vedo una rivalsa per quella medaglia non vinta allora. Sono felice di vederli esultare per i loro successi: ma so che sono il frutto della costanza che hanno oggi nell'essere sul campo ogni giorno ad allenare quando le cose vanno bene e quando vanno male».

È mai stato tentato da quel percorso?

«Per un periodo della mia vita ho provato anche piacere a focalizzarmi interamente sulla pallavolo, tanto che la cosa più importante era schiacciare quella palla, ma quando questo meccanismo si è rotto perché non ero più in grado di essere un giocatore di alto livello, ho ha smesso, consapevole di non volere più vivere quotidianamente dentro il campo: la pallavolo mi piace ancora, mi piace seguirla, studiarla commentarla, ma sto bene così vivendola in modo più defilato».



Da anni porta a teatro spettacoli, uno dei quali – La leggenda del pallavolista volante -sulla sua vita. Anche fare l'attore, par di capire, non era nei piani, ci sono analogie tra campo e teatro?

«Neanche questo, come la pallavolo, era un desiderio esplicito, sono inciampato nel teatro, iniziando a occuparmi della parte tecnica degli spettacoli di Kataklò, la compagnia di danza di Giulia (Staccioli, ex ginnasta moglie di Zorzi ndr.): è un' esperienza che mi riempie il cuore, impegno e concentrazione nello sport ea teatro sono simili e, a differenza di quanto si potrebbe pensare, anche qui è importante la condivisione: ma a teatro il rapporto con il pubblico è molto più stretto che nello sport. In campo, anche se sei un campione, avere il pubblico è bello e aiuta, ma in quel momento non è il tuo centro: si gioca per vincere non per instaurare una relazione con il pubblico come invece avviene a teatro».

Collabora con aziende per corsi di Team Building, che cosa ha imparato dalla pallavolo che serva fuori?

«Negli ultimi anni cerco di spiegare sempre di più che c'è un eccesso di retorica nel racconto sportivo come se fosse un modello di successo anche fuori: io credo enormi che ci siano differenze tra il mondo sportivo e il mondo aziendale. Cerco di spiegare che non esistono percorsi semplificati, che lo sport non è un modello si per sé, ma può essere utile perché, nella sua semplicità anche di risultati, ti permette di riconoscere comportamenti virtuosi ed efficaci. Cerco anche di non cadere nella retorica individualista dell'atleta proposto come uno che ha più coraggio degli altri e che non sbaglia mai. Penso che questo racconto meno retorico sia importante soprattutto con le nuove generazioni, che vivono lo sport sempre meno come esperienza personale e umana e sempre più come business e che come tale non rispetta sempre e solo regole etiche e morali».

A un bambino iniziò uno sport, anche solo di base, e ai suoi genitori che cosa direbbe?

«Ai bambini, non dire niente perché hanno la fortuna di godersi il gioco senza elucubrazioni razionalmente, vorrei invece far capire a genitori e allenatori che bisogna distinguere nettamente le regole della competizione, che prevedono che alla fine di ogni gara ci sia un vincitore, da quelle della vita: tornerei fortissimo sul tema per cui se vinci una partita non sei un vincente, se la perdi non sei un fallito. Tema complicatissimo, perché viviamo in una comunicazione polarizzata bianco/nero per cui o sei il migliore al mondo o non sei nessuno. Da un parliamo molto di valori dello sport, dall'altro con l'esempio comunichiamo altro. È il tema più complicato della modernità: in una società in cui viene esasperato eccessivamente il concetto di merito, si rischia di trasmettere una cultura tossica della performance: che poi significa promuovere solo chi conquista ricchezza, realizzazione, successo, addossando a chi resta indietro anche la colpa della propria povertà. Non è facile contrastare questa cultura, perché nella comunicazione vincono le semplificazioni e perché noi siamo portati come esseri umani a preferirle, dobbiamo ragionarci».

Il 20 settembre, sarà a Donna Volley 1522, dove 1522 è il numero di emergenza antiviolenza che l'Ambivere in B2 ha chiesto di portare sulle maglie: la pallavolo può servire anche a sensibilizzare contro la violenza di genere?

«Direi che è lo sport perfetto per farlo: intanto perché in Italia è il più giocato dalle donne e poi perché le sue regole sulle misure della rete (2.24 per le donne, 2.43 per gli uomini) fanno sì che i livelli tecnici e di spettacolo tra pallavolo maschile e femminile sono molto paritari».





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