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“Immaginare la Pace”, a Parigi le religioni rifiutano la normalità della guerra


«Ciascuno di noi pensa a un popolo fratello che soffre nel cerchio infernale della miseria e della guerra». Con queste parole l'arcivescovo Laurent Ulrich accoglie a Parigi leader cristiani delle diverse confessioni, musulmani sunniti e sciiti, rabbini ebrei, esponenti buddisti e di altre religioni asiatiche, insieme a rappresentanti del mondo della cultura e delle istituzioni. Da diversi continenti sono giunti a Parigi per l'incontro internazionale “Immaginare la Pace”, organizzato dalla Comunità di Sant'Egidio dal 22 al 24 settembre; è l'annuale incontro dello “spirito di Assisi”, dal nome della città dove Giovanni Paolo II riunì i leader delle diverse religioni per parlare di pace in un momento in cui il Pianeta era diviso nei due grandi blocchi della Guerra fredda e da molti conflitti regionale.

Nel 2024 la cerimonia iniziale è al Palais des Congrès, 21 forum si svolgono nel cuore di Parigi sulle problematiche emergenti del nostro tempo (come pace, disarmo, crisi ambientale, migranti, democrazia e solidarietà), fino alla cerimonia finale sul sagrato della cattedrale di Notre Dame. Ma quest'anno, come dice l'arcivescovo di Parigi, tutti hanno in mente come la guerra è stata accettata, dall'Ucraina a Gaza e Israele, oltre agli altri 50 conflitti in corso nel mondo. Alcune immagini vengono proiettate durante l'inaugurazione: case bombardate, bambini rapiti, campi per rifugiati, profughi che attraversano fiumi e mari, semplici croci per chi ha raggiunto la spiaggia cadavere. Le grida della guerra ei pericoli dell'odio tornano anche nelle parole dell'arcivescovo di Canterbury Justin Welbyil primate anglicano che nel 2023 è stato in Sud Sudan in un viaggio di pace con Papa Francesco.

“Immaginare la pace”, il titolo della tregiorni scuote la paralisi del nostro tempo. Proprio questo è il messaggio dell'incontro: non rassegnarsi alla normalizzazione della guerra. Lo spiega Andrea Riccardi, fondatore di Sant'Egidio: «Parlare di pace, in questi tempi, può sembrare da sognatori: le istituzioni internazionali, come le Nazioni Unite, sono prive dell'autorità che viene dal consenso degli Stati, circolano tante armi, i conflitti si accompagnano allo sviluppo di passioni bellicose tra la gente». Ad ascoltarlo, ci sono – oltre alla sindaca di Parigi Anne Hidalgo e il presidente francese Emmanuel Macron – i massimi rappresentanti dell'Islam e dell'Ebraismo francese.

Il Gran Rabbino Haïm Korsia, ricordando i rischi dell'antisemitismo anche in Francia, invoca il salmo 133 che dice che «è bene che i fratelli vivono insieme». Il rettore della Grande moschea di Parigi, Chems-Eddine Hafiz, cita le devastazioni di Gaza, e condanna quando le religioni «sono utilizzate, manipolate, traviate, in nome di rivalità e di ideologie politiche mortali». Per “immaginare la pace”, sottolinea l'importanza del recente viaggio del Papa in Asia e gli incontri con l'Islam asiatico, ricordando una figura dell'Algeria, dove Hafiz è cresciuto e che chiama anche la «terra di Sant'Agostino e di Charles de Foucauld»: l'emiro Abdelkader che nel 1860, esiliato a Damasco, protesse in ogni modo i cristiani della città, travolti a migliaia dalla furia di un conflitto sanguinoso.

Il presidente Macrondopo aver ammesso che si spende più tempo «a immaginare la guerra, più che la pace, che è più precaria e più fragile», indica tre attenzioni per costruire la pace: «Aumentare la conoscenza dell'altro; impegnarsi per la coesistenza riconoscendo il diritto all'esistenza anche di chi è stato un nemico; usare la forza dell'immaginazione e non cedere alla nostalgia del passato: è avvenuto quando è stata sognata l'Unione europea dopo la distruzione della guerra mondiale».

Lo scrittore franco-libanese Amin Maalouf dice: «In un mondo in cui regna il sacro egoismo, in cui così tante nazioni e comunità fondano la propria coesione sull'odio per l'Altro, in cui le principali potenze si insultano ininterrottamente e si parlano a malapena, tutte le derivano diventano plausibili». C'è bisogno di immaginare la pace, perché la pace non c'è. Andrea Riccardi si chiede come sia stato possibile volatilizzare “la cultura di pace”, fino a tornare a parlare di armi atomiche in Europa e all'affermarsi di una politica così realistica che finisce per svuotarsi della sua forza, osa poco e si ritrova un rimorchio degli avvenimenti . Spiega lo storico: «Abbiamo consumato un'eredità morale trasmessaci dal Novecento e dalle sue terribili esperienze: due guerre mondiali, la Shoah, gli spostamenti di popolazioni, l'uso dell'arma atomica. Durante la guerra fredda, i riferimenti alla cultura della pace non hanno certo impedito i conflitti, ma hanno costituito un limite, un'alternativa. Dalla memoria dell'orrore era l'imperativo morale e politico a non oltrepassare alcuni limiti». Nel passato, anche le religioni hanno avuto la loro responsabilità: «Hanno alle spalle storie di coinvolgimento nella guerra, fino alla sua sacralizzazione. Talvolta si è arrivato al punto di proclamare la guerra in nome di Dio, cosa che tutti noi – ribadisce – consideriamo una bestemmia. Il nome stesso di Dio è la pace». Nella storia delle relazioni tra le religioni, l'invito ad Assisi di Giovanni Paolo II fu un grande esempio di cosa vuol dire “immaginare la pace”. Il fondatore di Sant'Egidio non nasconde la preoccupazione per la normalizzazione della guerra, che «è un po' come la droga». Si dice: «Smetto quando voglio…Lo sentiamo oggi nei discorsi dei responsabilità politici di fronte alla guerra. Siamo ormai drogati di guerra». La realtà è che non si riesce a fermarsi; per questo serve l'incontro di Parigi. Come diceva, combattendo da partigiano di un popolo umiliato, Nelson Mandela, «la pace non è un sogno: può diventare realtà; ma per custodirla bisogna essere capaci di sognare». Immaginare la pace non è – continua Riccardi – «un pensiero da anime belle che non si sporcano con la storia». Al contrario, «i credenti sentono il sudiciume e le grida di dolore della guerra», non perdona la speranza e agisce di conseguenza.

Cosa vuol dire è testimoniato dalla giovane afghana hazara Lina Hassani: da cinque mesi vive in Belgio, è una delle 7.702 persone salvate dai corridoi umanitari di Sant'Egidio. Racconta del padre ucciso dai talebani, della vita nel quartiere Dusht-e-Barchi di Kabul preso di mira dagli attentati: «Ho assistito a un attacco suicida nella nostra scuola, ho visto il corpo senza vita dei miei compagni di classe di meno di 14 anni. Questo è stato solo uno dei tanti giorni fin troppo normali per uno studente a Kabul». Poi, dopo il 2021, le restrizioni per le donne e l'impossibilità di uscire di casa senza un tutore maschio, infine la povertà di essere profughe con la fuga in Pakistan, paese che negli ultimi mesi ha rimpatriato un milione di afghani. Poi, l'incontro con Sant'Egidio: «Hanno ascoltato le nostre preoccupazioni, ci hanno portato in Belgio. Oggi io, mia madre e le mie sorelle vivono in un appartamento nei locali di una chiesa parrocchiale e siamo amati e accompagnati in questa nuova vita». Un modo concreto di “immaginare la pace”.





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