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Il parroco libanese: «A chi giova questa guerra? Basta con i missili, la popolazione è stremata»



«Ci ​​chiediamo fino a quando? Ma, soprattutto, perché?». La voce di padre Toni Elias, parroco maronita di Rmeich, al sud del Libano, arriva a fatica, interrotta più volte per il debole segnale internet dopo che sono saltate in aria alcune centraline di telecomunicazioni. «Quello che ci preoccupa», aggiunge dopo la notte più sanguinosa dai tempi della guerra civile (1975-1990), «è la gente che ha lasciato i propri villaggi. Le strade sono affollatissime anche stamattina, il carburante è finito, e, in realtà, non c'è nemmeno un posto sicuro dove andare».

Israele, nella notte, ha colpito con una pioggia di missili che ha causato 500 morti e oltre 1.600 feriti. «Non abbiamo paura di essere bombardati direttamente perché Israele sa che nel nostro villaggio, interamente cristiano, non ci sono armi e non ci sono miliziani, ma i proiettili di rimbalzo arrivano anche qui. Ringraziamo Dio di non aver avuto finora alcun ferito, ma solo qualche vetro rotto, qualche parete forata, qualche macchina distrutta». In tanti si sono messi in marcia per andare via, «il 90 per cento della popolazione del Sud e dalla Valle della Bekaa si è messo in marcia per andare altrove. Tantissimi sono rimasti bloccati sulle autostrade per il grande affollamento. Sono partite soprattutto quelle famiglie che hanno dei malati in casa, perché qui non è più possibile curarsi, e chi ha un posto altrove dove andare. Ma fino a quando questa situazione sarà sopportabile? Andare via significa lasciare la propria casa, il proprio lavoro. Per vivere come?»si chiede il parroco. Intanto chiudono le scuole: «Avevamo fatto un piano per cercare di riaprirle quest'anno, nonostante la guerra. I nostri ragazzi, tra il covid e quello che sta accadendo adesso, stanno sempre a casa e non imparano nulla. Non è possibile usare internet perché la rete non funziona e poi hanno bisogno di socialità, di stare all'aria aperta, non rinchiusi in una stanza. Con le scuole cattoliche avevamo tanti progetti, ma dopo questa notte è tutto interrotto». Proprio nelle aule scolastiche in tanti stanno trovando rifugio, «soprattutto in quelle vicino Beirut. Altri nelle chiese di Byblos. In ogni caso quello che osserviamo è che non c'è alcun posto sicuro dove spostarsi. Anche andando via dal Sud non ci si può mettere in salvo perché Israele colpisce ovunque ovunque sa, o crede di sapere, che ci siano membri di Hezbollah».

Pensa ai civili, padre Elias. Domande senza risposta: «Chi ha lasciato i villaggi come farà? Chi è senza lavoro come farà? Chi è senza casa come farà? Chi è senza un posto per dormire come farà?». Soprattutto: «Fino a quando dureranno questi conflitti? La situazione peggiora giorno dopo giorno e non si vede una via d'uscita. E mi chiedo se c'è una causa giusta da qualche parte per questa guerra oppure no. Non mi piace entrare in politica, ma osservo che è vero che c'è un partito armato che dà fastidio a Israele, ma chi ha permesso che fosse lì? E gli attacchi da una parte e dall'altra a chi giovano? Perché dobbiamo essere continuamente minacciati? La popolazione civile non c'entra niente e, se è vero che i torti e le ragioni stanno da entrambe le parti, l'unica cosa che davvero può servire è il dialogoma in questa situazione non esiste. Siamo sotto una pioggia di missili da entrambe le parti. Ognuno di questi costa miliardi di dollari. Davvero non si potevano impiegare in modo diverso, per costruire qualcosa?».

Non smette di credere alla forza delle parole, padre Elias, ea quello della preghiera. «San Paolo diceva che la croce, per chi non crede, è follia. Per noi credenti, invece, è la forza di Dio, la potenza di Dio. Ci aggrappiamo a quella e continuiamo a incoraggiare la gente ad avere fiducia nonostante la situazione drammatica». Sarà difficile che qui arrivino ancora medicine, farina gasolio. «Ma, nonostante tutto, sempre predichiamo e insegniamo alla gente di avere fiducia nel Signore, che Dio non ci lascerà nella tribolazione. Invitiamo a pregare non solo i nostri concittadini, ma anche tutti i cristiani del mondo. Sempre, non solo nei momenti di crisi, la preghiera è la prima cosa. E poi chiediamo alla Caritas e alla Croce rossa di distribuzione materassi perché certamente non basteranno per tutti gli sfollati che si trovano nelle scuole e nelle parrocchie. Questa è la prima cosa urgente da fare. E poi bisogna pensare al futuro a come potrà vivere la gente che è rimasta al sud, praticamente isolata ea chi è partito lasciando tutto. Per un po' basteranno i soldi messi da parte, ma poi? Avremo bisogno di tutto anche perché lo Stato non ha fatto un piano di sicurezza e si sta mostrando assente. Il peso è sulla Chiesa, sul vescovo, i parroci, i singoli municipi».

Invoca, ancora, la forza della diplomazia che «è l'unica cosa sensata da mettere in campo. Non sappiamo quando finirà questa guerra, ma speriamo e preghiamo perché questa volta, alla fine del conflitto ci possa essere una risurrezione vera e duratura».





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