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«La guerra non è una fatalità: immaginare la pace»



La guerra non è una fatalità. E neppure la pace, che va immaginata e costruita. Gaza e la Cisgiordania, il Congo, il Sudan, il Mozambico e le altre 59 guerre del 2023; per l'Oslo Peace Research Institute, mai un numero così alto dal 1946. Le voci da questi territori sono al centro dell'incontro internazionale “Immaginare la pace” (22-24 settembre), organizzato dalla Comunità di Sant'Egidio a Parigi.

Sono i giorni in cui il Libano è bombardato, la guerra in Palestina e Israele rischia l'escalation e in Yemen si è fossilizzata una guerra civile con tanti attori regionali implicati e interessati. Dal Medio Oriente, nel panel “La guerra non è una fatalità: immaginare la pace”, arriva la voce del Ministro degli Affari religiosi dell'Oman, Mohammed Said Al-Maamari, che sottolinea la responsabilità dei leader religiosi: «Possono avere un ruolo decisivo per affermare che occorre, anche con chi è stato nemico, costruire dialogo, promuovere riconciliazione e ritrovare valori comuni». Da un «lembo di terra lacerato dalla guerra» è arrivato a Parigi padre Ibrahim Faltas, il francescano che è vicario della Custodia di Terra Santa: «La sofferenza è universale: molti cristiani abbandonano Betlemme e Gerusalemme, le madri israeliane piangono i loro figli scomparsi , mentre la popolazione civile di Gaza è ostaggio di un conflitto che non ha scelto». Spiega: «Ci sentiamo ostaggi anche noi, sebbene possiamo apparire liberi. La guerra e le decisioni dei potenti ci braccano, impedendoci di progettare e di vivere serenamente, e siamo intrappolati in una spirale di vendetta e odio». Il francescano sottolinea le sofferenze dei palestinesi: «Vagano da nord a sud nella Striscia, stipati in luoghi che dovrebbero essere sicuri ma che, invece, si rivelano trappole mortali». L'emergenza a Gaza è la sopravvivenza: «La carestia, la fame e la sete uccidono ogni giorno. La natura è devastata: l'aria e l'acqua sono inquinate dai bombardamenti, mentre tonnellate di macerie, detriti e rifiuti si accumulano, diffondendo molte malattie. Se non si muore sotto i bombardamenti, si muore perché mancano i farmaci e non ci sono ospedali dove andare, molti dei quali sono stati distrutti». Richiamando l'appello al cessate il fuoco di Papa Francesco, padre Ibrahim non riesce a dimenticare «quegli occhi colmi di terrore, testimoni di un maschio che implorano un risveglio delle coscienze di coloro che, purtroppo, non fanno nulla per fermare la violenza». Ringraziamo, poi, Sant'Egidio per le duecento persone evacuate in Italia nei mesi scorsi, bambini feriti che ora hanno ripreso a sorridere.

Anche in Cisgiordania la situazione è difficile, aggravata dalla crisi economica: «Ricevo richieste da uomini e donne che implorano la possibilità̀ di lavorare e di sostenere le loro famiglie, chiedono almeno il permesso di attraversare il checkpoint verso Israele, alla ricerca di un'opportunità̀ di lavoro per riacquistare dignità̀ e speranza”. Quel muro, prima del 7 ottobre rappresentava una barriera, ora segna un confine tra disperazione e speranza.

Padre Faltas ricorda le migliaia di bambini innocenti morti, quelli privati ​​dalla loro infanzia, resi invalidi per il resto della vita, oppure orfani, accampati in campi profughi dopo essere stati costretti a lasciare le loro case, i ricordi, i giocattoli e le fotografie di famiglia. A questo i francescani non vogliono rassegnarsi: per i minori che frequentano le loro scuole – musulmani e cristiani, con l'inclusione di bambini sordi e ciechi – hanno arricchito il loro progetto scolastico. «Anche gli ebrei frequentano la nostra scuola di musica del Magnificat; per questo motivo, abbiamo inserito corsi di lingua ebraica e approfondito la conoscenza delle altre religioni. Piccoli passi, piccole azioni, costanti, giorno dopo giorno, aiutano i nostri studenti a costruire pilastri importanti e solidi per una nuova società̀. Pur crescendo in un tempo di guerra e paura, per immaginare la pace servire una visione di speranza».

Il cardinale di Kinshasa, Fridolin Ambongo Besungu, porta la voce di quelle che sono state definite le “guerre mondiali africane”: 30 anni di conflitto in Cogno (soprattutto nell'est), un'intera generazione di giovani cresciuti nella violenza, oltre 6 milioni di morti e quasi 4 di sfollati interni, «un'esperienza unica che ha rivelato cosa sia realmente la guerra: omicidi, stupri, schiavitù, corruzione». La guerra è la madre di tutte le povertà anche perché alimenta un'economia armata: «Ci sono – dice il cardinale che ricorda con gratitudine la visita del Papa nel 2023 – ragioni economiche dietro tutta una serie di conflitti mascherati da “etnici”, “ tribali”, “di confine” e così via. Certo, il linguaggio è spesso manipolato in modo tale da spingere le menti ei sentimenti delle persone verso l'odio e il conflitto». Funzionale a questa economia è rendere le armi l'unico modo per avere un salario: «Non è quindi un caso che le scuole elementari del Nord Kivu siano diventate obiettivi militari per costringere i bambini a non sognare un futuro diverso dalla guerra». Oltre a citare il lavoro educativo di Sant'Egidio nelle Scuole della Pace, dal cardinale di Kinshasa arrivano tre proposte per costruire la pace: «Dare voce alle vittime e ascoltarle; non pensare di poter trovare soluzioni unilaterali, poiché una pace duratura si può costruire solo insieme; cambiare la narrazione, dando priorità alle ragioni della pace rispetto ai disastri della guerra».

Infine, dalla memoria delle guerre arrivano le indicazioni per “immaginare la pace”. Il Gran Mufti della Bosnia Erzegovina, Husein Kavazović, propone la “Dichiarazione di pace congiunta ebraico-musulmana”, firmata a dicembre scorso con la Rete internazionale dei figli dei sopravvissuti ebrei all'Olocausto, Menachem Rosensaft, e il capo della Comunità ebraica bosniaca Jakob Finci: «È uno strumento per tenere sempre aperto un canale di comunicazione tra le nostre comunità». Il mozambicano Nelson Moda di Sant'Egidio ha rievocato la guerra civile che ha stravolto il Mozambico tra il 1976 e il 1992 – bambini rapiti e trasformati in soldati per combattere i loro stessi genitori e villaggi, madri costrette ad assistere all'uccisione dei propri figli nel modo più crudele –, fino alla pace mediata dalla Comunità e firmata a Roma. «Nelle trattative – dice – una delle prime sfide è stata modificare il linguaggio: il governo chiamava i guerriglieri “banditi armati”, la Renamo parlava del Frelimo solo come i “comunisti”». Al tavolo delle trattative di Roma, il primo passo è stato quello di imparare l'alfabeto della fraternità e del linguaggio rispettoso tra le parti: «È così che la pace ha cominciato a essere immaginata. Il dialogo per la pace non poteva procedere senza prima aiutare uomini e donne a riconoscersi come parte della stessa famiglia, il popolo mozambicano». In parallelo «il ripristino della pace – continua Monda – cominciò a essere considerato possibile sulla base della solidarietà con le vittime. Gli aiuti umanitari dall'Europa arrivarono nel bel mezzo della guerra, quando il Mozambico era diventato il Paese più povero del mondo». La festa del 1992 arrivò non perché «il paese era forte, ma perché nella sua debolezza e fragilità, esito della guerra, ha incontrato e ascoltato qualcuno che operava in modo disinteressato, la Comunità». Anche la pace, come la guerra, non è una fatalità, ma frutto dell'impegno di chi ha saputo “immaginare la pace”.

foto, Comunità Sant'Egidio





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