News

Quell’oasi di pace a Casablanca, nel segno di Francesco


Suor Ersilia.

di Renato Zilio

Il caotico, trafficato e moderno boulevard Ain Harrouda di Casablanca da lontano già si intravede. La silhouette di una piccola chiesa colore beige vi attira. Oltrepassato, poi, un alto muro si entra in un recinto sacro: un altro mondo. Un'oasi di pace. Come fosse il benvenuto del carisma di Francesco.

In realtà, è il nido delle suore Francescane missionarie di Maria. Un nido dove si nasce non alla vita, ma all'eternità. Qui le religiose passano le ultime giornate della loro esistenza. Qui attendono l'invito del Signore a entrare, finalmente, nel suo Regno. Sono tutti ex combattenti. Sì, tutte hanno combattuto una vita con energia e grande passione per il Regno di Dio ei suoi valori, nel Maghreb. Il gusto della fraternità, il senso di giustizia, la dignità e l'avvenire del popolo marocchino che tanto amano: tutto questo ha loro riscaldato il cuore. Venite in un vero cammino di Emmaus. E questo nelle strade più differenti: la salute, l'educazione, le povertà sociali, le prigioni. «Un giorno, un musulmano che lavorava con me da molti anni in un servizio sociale a Ouarzazate, – vi confessa suor Francesca – mi disse deciso: “Da lei ho imparato la giustizia!” Sono rimasta sorpresa, senza parole». In fondo sorprende per visitare davvero questa casa, anzi questa «biblioteca». In cui ogni religiosa è un libro, dove incontro volti, storie, avventure. E naturalmente le sorprese di Dio.

Angela, spagnola, ottantenne, con un fare ancora vivace e schietto, era infermiera. Ricorda bene quando entrò anni fa per la prima volta al grande ospedale Avicennes di Casablanca. Maestoso e impressionante per lei, con i suoi 5 piani. «Ma quando dopo anni uscii, erano tutti amici miei!» esclamerà con un volto luminoso, che vi conquista ancora. Passione e compassione, impegno enorme, disponibilità e sempre un sorriso… ecco la sua ricetta. Ovunque la volontà di Dio la chiamava a operare: Rabat, Midelt, Meknès, Casablanca.

Suor Ersilia, poi, trentina, lucida e solida come una montagna, nella serenità dei suoi (tenetevi forte!) 103 anni, vi racconterà come a ben 52 anni capitò quasi per caso in Marocco. Doveva animare un atelier di cucito e tessitura di tappeti per donne a Meknès. E allora eccola a Fès per imparare il lavoro al telaio. Mettersi così accanto a una bambina che vi lavorava, orgogliosa di farsi maestra. «Le monde à l'envers!» (il mondo al contrario) vi dirà. Ma è sempre Francesco che insegna la virtù più cara a Dio: l'umiltà. Maria ne fu la discepola migliore. Voilà, Missionarie Francescane di Maria.

Interviene suor Bruna, un'altra trentina, che ribatte: «Mettersi alla portata della gente per noi è essenziale. Essere una di loro, vivere semplicemente come loro». Lo dice sillabando ogni frase, come una regola d'oro. Ed è sempre quel mistero dell'incarnazione che celebriamo, quando Dio, paradossalmente, si è messo «alla portata» degli uomini. Uno di noi.

Allora, lei vi descriverà le loro abitazioni semplici, le porte sempre aperte… così le donne musulmane capitavano a tutte le ore, anche mentre mangiavano. Sì, curioso di vedere cosa c'era in tavola. Un giorno, venne una donna con una lunga lista di domande su un foglio. Voleva conoscere meglio la nostra fede. «Ma in fondo, la mia fede – vi assicura lei – non è che cercare continuamente l'impronta di Dio in te. Chiunque tu sia, ebreo, cristiano o musulmano. Non siamo forse stati creati tutti a immagine di Dio?» 'Cercare' per lei è l'atteggiamento più grande e più vero del cristiano. Cercare le sue orme, il suo passaggio… «E poi, sapessi quante cose – concludono con un sospiro – ho imparato dalle donne musulmane incontrate… La pazienza, la tenacia, un'immensa ospitalità, il continuo senso di Dio, ovunque». E infine aggiunge: «In cucina, poi, hanno sempre tante cose da insegnarvi, come la tajine, il couscous, il pane di mais e… l'appetito!».



Miriam, indiana, dolce e discreta, da una decina d'anni visita le prigioni. «Un privilegio per me: mi fa raggiungere i più vulnerabili», vi confesserà subito. Lei sa bene che uscire insieme dal blocco, ritrovarsi nella propria lingua, francese, inglese, o altro… poter parlare con libertà, per i migranti rinchiusi (e condannati a volte al mutismo, in cella con marocchini che parlano unicamente arabi) è una vera boccata d'ossigeno. Si legge il Vangelo, si prega, si parla. «La mia presenza porta un messaggio di pace, di riconciliazione», continua la religiosa. A Pasqua c'è anche un pasto insieme, viene per l'occasione il vescovo per la messa. E loro a chiedermi: «Viene ancora quest'anno il papà?» Lo chiamano così. I latinoamericani sono qui per spaccio di droga, altri per altro. Hanno vergogna. «Ma io faccio capire loro che il Cristo non cessa di amarli», soggiunge delicatamente suor Miriam, «e se una volta non andassi, allora sono proprio le guardie a domandarsi: “Ma Miriam non viene?”». Al di là delle sbarre, attraverso di lei, un piccolo miracolo: il senso di familiarità.

Lo spirito di Francesco con loro, infatti, ha sempre il sopravvento. Il sapore della fraternità. A cominciare dalle loro comunità, sempre interculturali e internazionali. Recita una loro preghiera quotidiana: «Signore, fa' che sappiamo essere una presenza che abbia il gusto delle mandorle nella torta». La più deliziosa torta di qui.





Source link

Leave a Reply

Your email address will not be published. Required fields are marked *