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Open Arms e non solo, ‘Scontro’ tra politica e giustizia: da dove nasce, che storia ha e perché non si placa mai


 

Il processo Open Arms, contro cui i parlamentari della Lega scendono in piazza a Palermo il 18 ottobre 2024 (foto Ansa), porta d’attualità il tema della tensione tra potere esecutivo e giudiziario. Il cosiddetto “scontro” tra poteri, e segnatamente tra politica e giustizia, è un tema che tiene ciclicamente banco nel dibattito pubblico, spesso con toni che perdono di vista la complessità della realtà. Proviamo a capire da dove viene, quando comincia e perché


Una storia iniziata in Francia tre secoli fa

La teorizzazione della separazione dei poteri (legislativo, esecutivo e giudiziario), poi alla base della complessa gestazione del costituzionalismo liberale in Europa, risale a Montesquieu e al suo trattato sullo Spirito delle leggi. Siamo nel 1748, mancano 51 anni alla Rivoluzione francese, il contesto è quello di una monarchia Assoluta in cui Luigi XV, sovrano all’epoca in Francia, riunisce in sé ogni potere, un’epoca simboleggiata dalla frase del suo predecessore il Re Sole, «Lo stato sono io», a indicare un sovrano legibus solutus, ossia libero dal dovere di assoggettarsi alle leggi da egli stesso dettate.

Perché la separazione dei poteri, che ha avuto il suo primo incompleto precedente nella monarchia parlamentare inglese istituita con il Bill of Rights, trovi piena attuazione occorre una travagliata gestazione che dura due secoli, e passa per le rivoluzioni americana (1776) e francese (1789-99), per le degenerazioni del terrore e della Vandea e per la restaurazione, nonché per due guerre mondiali.

Solo al termine della seconda si afferma il costituzionalismo liberaldemocratico che attua in diversi Paesi la separazione che caratterizza le democrazie pluraliste contemporanee.

Il presidio nella Costituzione italiana

  

Uno dei testi che lo attua con maggiore rigore è la Costituzione italiana entrata in vigore il 1° gennaio 1948, uscita dalla mediazione di forze cattoliche, comuniste, azioniste e liberali, che tra 1946 e il 1948 siedono all’Assemblea Costituente con l’obiettivo di trovare un accordo tra le rispettive divergenze, per garantire alla Repubblica nascente una Carta in grado di tutelarla dal rischio che possano ripetersi i presupposti del precedente della dittatura nazifascista appena trascorsa e sfociata nel trauma collettivo della Seconda Guerra mondiale.

Proprio a questo scopo, per prevenire il dilagare dell’esecutivo come in quelle che oggi chiameremmo “democrature”, ossia democrazie formali progressivamente scivolanti verso tendenze autocratiche, la Costituzione italiana disegna un complesso sistema di contrappesi, perché nessun potere, neppure l’esecutivo, possa fagocitare gli altri e dilagare.

Si spiegano così tra le altre cose: l’indipendenza della magistratura, compresa quella requirente e la sua soggezione soltanto alla legge; la funzione di garanzia del Presidente della Repubblica; la centralità del Parlamento, la composizione mista della Corte costituzionale e del Consiglio superiore della magistratura.


Una tentazione comune nel mondo

Tentativi di espansione dell’esecutivo, a discapito dei Parlamenti e della magistratura, sono argomento d’attualità in molti Paesi anche democratici e avanzati. Le riforme della giustizia sono spesso sotto la lente, in quanto fattore di rischio di scivolamento antidemocratico in caso di compressione dell’indipendenza della magistratura: si pensi alla lente dell’Europa su Ungheria e Polonia; alle proteste di piazza in Israele sullo stesso tema contro il Governo Netanyahu prima del 7 ottobre 2023, ai giudici e agli avvocati arrestati in Turchia. E ancora negli ultimi giorni alla protesta dei giudici tunisini per l’indipendenza del sistema e ai cartelli nel dipartimento di Giustizia di Washington in cui si afferma di voler resistere ai tentativi di ingerenza politica. Tutte vicende dell’ultimo decennio quando non proprio delle ultime ore.

Indipendenza della magistratura, una conquista progressiva

  

Benché l’indipendenza della magistratura italiana, compresa quella requirente, da ogni altro potere sia già scritta il 1° gennaio del 1948, la magistratura in servizio a quell’epoca è ancora quella entrata prima del fascismo e durante: un’epoca in cui gli uffici requirenti rispondevano non soltanto alla legge come scritto in Costituzione ma a un esecutivo ben disposto ai processi politici. Il Terzo potere nei primi anni della Costituzione ha ancora una struttura fortemente gerarchica, articolata in una magistratura alta (quella delle Corti) e bassa (preture e tribunali) e impiega tempo a introiettare l’indipendenza che la Costituzione le assegna.

È una magistratura, per estrazione sociale, omogenea se non organica alla classe dirigente: a Giurisprudenza si accede solo con la maturità classica, studi accessibili ai pochi che possono permetterseli, e alle donne è precluso l’accesso al concorso per diventare magistrati. Non solo, la magistratura repubblicana fino al 1955 non può contare sull’operatività della Corte costituzionale cui ricorrere per chiedere lumi, quando si trova ad applicare leggi, di precedente ispirazione, in contrasto con il dettato costituzionale. Fino al 1958 non ha un Consiglio superiore che ne tuteli l’autonomia e l’indipendenza, da ingerenze interne ed esterne.

Per prassi e per abitudine tende a lavorare nel solco della tradizione e per decenni non spinge la propria indipendenza fino a indagare nelle stanze del potere. Questo fa sì che fino ai primi anni Settanta non si evidenzi tensione con altri poteri.  Anche se dai primi anni Sessanta, all’interno della magistratura si è aperto un ampio e a volte molto acceso dibattito (simboleggiato dalle due correnti progressista Magistratura Democratica e conservatrice Magistratura indipendente) il tema è come il magistrato disegnato dalla Costituzione debba intendere sé stesso in relazione al mondo esterno e alla domanda di giustizia che viene sul suo tavolo – in una fase di diritti e di istanze sociali in espansione ­- e che non può eludere: un giudice deve comunque decidere con le leggi che ci sono  e che hanno una gerarchia che vede in quel momento la Costituzione al vertice, cui nel tempo si aggiungerà il diritto sovranazionale europeo.

Nascono attorno a questo problema, nei primi anni Sessanta, le prime “famigerate” correnti all’interno dell’Associazione Nazionale Magistrati, sciolta dal fascismo e ricostituita con la Repubblica. 


Anni Sessanta, l’impatto dei cambiamenti sociali

Quella magistratura socialmente tutta simile all’inizio è destinata a stratificarsi man mano che entrano giovani formatisi con la Costituzione in vigore: nel 1969 le università aprono gli accessi, anche studenti con licenze diverse dalla maturità classica entrano a Giurisprudenza; nel frattempo dal 1965 sono entrate le prime otto donne (tra loro Gabriella Luccioli, foto) a far parte dell’ordine giudiziario (a distanza di 50 anni saranno più della metà dell’organico): all’inizio degli anni Settanta sono maturi i tempi perché l’eguaglianza dei cittadini davanti alla legge dell’articolo 3 trovi nell’indipendenza della magistratura una spinta all’attuazione concreta. Per la prima volta le indagini entrano anche nei cassetti in cui si esercita il potere. Ed è qui che, in realtà, cominciano le tensioni che oggi alcuni fanno risalire alla stagione berlusconiana e a quella che una certa vulgata ha chiamato con malevola intenzione “la guerra dei trent’anni”.

I “pretorini d’assalto”

  

In realtà la tensione comincia prima con le prime indagini sull’ambiente, con lo scandalo dei “petroli”, già il 2 gennaio del 1972 quando un articolo della Stampa titola un servizio: «Quei pretorini d’assalto», per poi specificare nell’occhiello: «Sono essi che rispolverano strumenti di legge in pratica dimenticati e mettono in primo piano i reati contro la collettività: inquinamento, distruzione del Paesaggio, traffico di enti ufficialmente benefici».

Fa parte di un pacchetto di articoli di stampa di varia provenienza, risalenti al 1971-72, sul tema: sono contenuti in una cartellina intestata Consiglio superiore della Magistratura, con appuntato a penna “Libera stampa. Attacchi, difese, critiche (di scarso valore)”. Si trova nell’Archivio Giovanni Colli, attualmente parte dell’Archivio digitale del Quirinale. Cominciano lì le accuse che tuttora ricorrono, ogni volta che un’indagine o un provvedimento giudiziario si affacciano alle stanze del potere: invasione nel campo politica, esibizionismo, demagogia.  


Dove nasce l’espressione “Toghe rosse”

La stessa denigratoria espressione “Toghe rosse” che tuttora sentiamo ripetere, per tacciare la magistratura di partigianeria politica, non è nata con il berlusconismo che l’ha rilanciata, ma ha una radice più antica: la riporta Piero Calamandrei nell’ultima edizione 1949 del suo Elogio dei giudici scritto da un avvocato, ricordando la vicenda del magistrato fiorentino Aurelio Sansoni: «Qualcuno, nei primi tempi del fascismo, lo chiamava anche il “pretore rosso”: e non era in realtà né rosso né bigio: era soltanto una coscienza tranquillamente fiera, non disposta a rinnegare la giustizia per fare la volontà degli squadristi. Non era in realtà né rosso né bigio era semplicemente un giudice giusto: per questo lo chiamavano “rosso”, perché sempre, tra le tante sofferenze che attendono il giudice giusto, v’è anche quella di sentirsi accusare, quando non è disposto a seguire una fazione, di essere al servizio della fazione contraria». 

Non è dato di sapere se chi oggi chi ripete quell’espressione nel dibattito pubblico s’avveda di citare un simile precedente.

1979-1992 Dalla P2 a Mani Pulite

  

La tensione sale quando nel 1979 Gherardo Colombo e Giuliano Turone, magistrati dell’ufficio istruzione di Milani,  scoprono gli elenchi degli affiliati alla Loggia massonica segreta P2 (962 nomi tra i quali compare di tutto, (compresi esponenti della politica dell’epoca e successiva, dello spettacolo, delle forze dell’ordine, del giornalismo, della politica e anche della magistratura…) e scoperchiano il progetto eversivo di Licio Gelli che prevedeva tra le altre cose l’assoggettamento dal potere giudiziario al potere esecutivo e la separazione delle carriere.

E sale ancora di più, quando il 17 febbraio del 1992 l’arresto di Mario Chiesa segna l’inizio dell’apertura del vaso di Pandora che, a partire da una modesta tangente per un appalto di pulizie, passerà alla storia come Mani Pulite dal nome dell’indagine che evidenzia una corruzione sistemica con tanto di tariffario diffusa, con diversi gradi intensità, pressoché nell’intero arco parlamentare. L’indagine, anche se non è che un’involontaria concausa, passa alla storia come il punto di rottura nel passaggio dalla cosiddetta prima Repubblica alla seconda Repubblica.


Un fronte tutt’altro che monolitico

Se è vero che il sostegno dell’opinione pubblica all’azione della magistratura in quel momento si caratterizza anche per un improprio tifo da stadio è vero che chi si appresta a coprire il vuoto di potere lasciato dalla cosiddetta prima Repubblica, si unisce a quel sostegno sgrammaticato.

Le Tv di Silvio Berlusconi sono in prima linea nel raccontare e nel sostenere l’azione giudiziaria. Non solo, nel momento della cosiddetta discesa in campo offrirà a due dei tre magistrati impegnati in Mani pulite un ministero del suo primo Governo ottenendone un rifiuto. È una storia che si ripete, da decenni si accusa la magistratura di politicizzazione, ma la stessa politica che l’accusa quando la magistratura fa il suo lavoro, non esita a candidare magistrati quando ritiene che questo torni utile alla causa o ai voti.

Ne abbiamo visti negli anni di reclutati tanto al centrosinistra quanto al centrodestra, cosa che basterebbe da sola a smentire qualsivoglia omogeneità politica della magistratura.

La stessa politica che accusa la magistratura di politicizzazione, mostrando sintomi di sindrome nimby (non nel mio giardino) ogni volta che un’indagine urta un politico del suo schieramento, poi mette in lista o al ministero magistrati che ritiene amici. Gli ultimi due magistrati ministri della giustizia (Nordio e Nitto Palma), per esempio, sono stati al centro destra (mentre Sergio Napolitano nel 2014 non ha accolto la proposta di Matteo Renzi per Nicola Gratteri Guardasigilli), prova che la pretestuosa generalizzazione “toghe rosse” non regge.

Non manca chi non apprezzi, nell’opinione pubblica e nella giustizia, le candidature dei magistrati, ritenendo poco consono che chi ha fatto l’arbitro poi vesta una casacca. Si sono posti limiti temporali e territoriali alle candidature, ma resta il fatto che l’iniziativa delle candidature matura in genere dalla parte politica. Della magistratura che si lascia tentare si potrà forse dire: “La sventurata rispose”, ma per le regole attuali, introdotte dalla riforma Cartabia, chi, da magistrato, salta il fosso e va a ricoprire incarichi elettivi non può tornare indietro.

1993 L’articolo 68, cambia l’immunità parlamentare

  

È in quel clima di corruzione, non difendibile agli occhi dell’opinione pubblica, in cui la magistratura gode di credito per le sue inchieste ma anche per l’ampio tributo di vite pagato alla violenza terroristica e mafiosa, che nel 1993 il Parlamento modifica l’articolo 68 della Costituzione relativo all’immunità parlamentare: la norma, voluta dai Costituenti a garanzia da ogni rischio di persecuzione politica,–  a memoria della dittatura appena trascorsa e delle accuse pretestuose all’opposizione che ne potevano sortire – prevedeva fin lì che l’apertura di un’indagine a carico di un parlamentare richiedesse l’autorizzazione a procedere, che la camera d’appartenenza poteva negare qualora ravvisasse del fumus persecutionisDa allora si discute se sia stato un cambiamento opportuno, ma è vero da tempo l’istituto era oggetto di discussione, perché ritenuto troppo spesso utilizzato come uno scudo indiscriminato per fermare anche indagini relative a reati comuni non attinenti all’esercizio delle funzioni.

Scriveva al proposito Glauco Giostra su la Lettura nel 2018, ricostruendo quel momento: «La nostra Costituzione prevedeva originariamente l’istituto dell’autorizzazione a procedere, che doveva servire al Parlamento per preservare la funzione della rappresentanza politica da indebite iniziative giudiziarie volte ad alterarne il fisiologico esercizio. L’indecoroso utilizzo di tale garanzia da parte del Parlamento, che ne ha fatto uno scudo per mettere i suoi componenti al riparo di ogni azione giudiziaria, ha poi indotto alla sua soppressione».

Ne sortisce il nuovo articolo 68 che limita l’immunità parlamentare alle opinioni e ai voti espressi nell’esercizio delle funzioni. E limita l’autorizzazione a procedere alle intercettazioni, alla perquisizione e all’arresto, salvo che si tratti di esecuzione di sentenza passata in giudicato o di casi in cui il parlamentare sia colto nell’atto di commettere un reato per cui c’è obbligo di arresto in flagranza. Per i membri del Governo l’autorizzazione a procedere rimane per le indagini su ipotesi di reato commessi nell’esercizio delle funzioni, in questi casi la competenza spetta al Tribunale dei ministri, composto di magistrati ordinari sorteggiati tra quelli in servizio nel distretto competente per territorio. È il caso del processo Open Arms a carico di Matteo Salvini, oggi ministro dei Trasporti, all’epoca dei fatti ministro dell’Interno: l’autorizzazione a procedere ha avuto il via libera del Senato, il 30 luglio 2020, passaggio formale che da solo dovrebbe sgomberare il campo da ogni sospetto di processo politico, quale che ne sia l’esito.


Magistratura e politica, l’Italia come uno stadio di sole curve

L’insofferenza per l’azione giudiziaria diventa aperta con il 1994. Chi ha tifato per “Mani pulite” cambia rotta e non gradisce che anche il nuovo che avanza possa finire sotto la lente delle indagini giudiziarie: da una parte i sostenitori comuni cittadini che erano giunti all’incresciosa manifestazione del lancio delle monetine a Bettino Craxi, e che vivevano come altro da sé il politico indagato, troppo lontano e in alto per confrontarvisi, cominciano a preoccuparsi per indagini di corruzione  più a misura di comune cittadino nel Paese incline agli aggiustamenti e alle raccomandazioni, e a sostenere meno l’azione della magistratura.

Dall’altra parte pesa il combinato disposto tra il  fatto che il capo del Governo, alla testa di un partito personalistico, possieda una pervasiva capacità di comunicare la propria verità alle persone attraverso la proprietà dei media e che in quel momento cumula parte della Tv pubblica lottizzata, tre tv private, quotidiani e periodici, e il fatto che sia finito poco dopo  sotto indagine, raggiunto da un’informazione di garanzia la cui notizia è uscita improvvidamente in corrispondenza di un evento molto pubblico, il G7 di Napoli. Si inaugura così, anche grazie a un conflitto di interessi mai sanato, una polarizzazione di tifo pro e contro che in parte ha contribuito a una ricezione distorta dell’azione giudiziaria.

È quella che Gian Carlo Caselli, magistrato di lungo corso, chiama richiesta di giustizia “à la carte”, in cui l’azione dei magistrati è sostenuta o avversata dall’opinione pubblica indipendentemente dal merito delle vicende contestate e dalla fondatezza delle indagini, a seconda del gradimento politico o meno del destinatario, con una logica da curva da stadio, anche complice una sistematica denigrazione della magistratura da parte della politica in quel momento al potere e degli organi di informazione che lo sostengono.

È di quel periodo il meccanismo di denigrazione mediatica del “nemico” passato alla storia come “metodo Boffo” e applicato anche a diversi magistrati impegnati in indagini e processi che hanno coinvolto Silvio Berlusconi, cui un’attività legislativa ad hoc ha dato un contestatissimo aiuto, che non ha alla fine evita una condanna a 4 anni per frode fiscale, diventata definitiva nel 2013.

Il momento di massima tensione: la stagione delle leggi ad personam

  

Al momento di formare il primo governo, Silvio Berlusconi propone Cesare Previti ministro della giustizia, ma è avvocato della Fininvest, impresa di proprietà del presidente del Consiglio, il presidente della repubblica Oscar Luigi Scalfaro non approva la nomina troppo implicata negli interessi personali,  e Previti viene dirottato sul meno sensibile ministero della Difesa.

Anni dopo Previti come coimputato di Berlusconi, che invece finirà prescritto per le attenuanti generiche, sarà condannato nel processo Imi-Sir, con gli l’avvocati Acampora e Pacifico e il giudice Metta, con sentenza definitiva, per una vicenda di corruzione di magistrati (Cassazione, 4 maggio 2006).  Un giudizio civile riparerà successivamente, con il risarcimento, l’esito ingiusto della sentenza “comprata”.

La situazione si fa più critica anche a livello istituzionale quando l’abitudine a cumulare difese tecniche in aula e difese televisive più o meno politiche, si aggiunge, soprattutto nella prima decade del 2000, la stagione delle cosiddette leggi ad personam in parte dichiarate poi contro la Carta dalla Consulta (il caso del Lodo Schifani 2003 e del Lodo Alfano 2008, che sottraevano ai processi per prime quattro/cinque cariche dello Stato, dichiarati incostituzionali in violazione dell’articolo 3 rispettivamente nel 2003 e nel 2009). Sono passate alla storia con questo nome una serie di leggi nelle quali la funzione legislativa è stata piegata dietro l’apparenza di leggi generali e astratte agli interessi personali del potere costituito del momento attraverso norme scritte, con la consulenza degli stessi avvocati difensori che contemporaneamente parlamentari.

È nata in quella stagione l’espressione “difendersi dal processo” anziché “nel processo”, ossia utilizzando canali esterni alla giurisdizione (interventi legislativi, stampa di proprietà, “difese” televisive) per sottrarsi al rischio di condanne, in alternativa o in combinazione con il canale regolare dei ricorsi nelle aule, previsti dalla legge, a garanzia di tutti imputati contro le decisioni giudiziarie ritenute da rivedere.


Il “resistere” di Borrelli passato alla storia

Sono gli anni in cui la magistratura, nelle singole persone e come categoria, è raggiunta da insulti di rara grevità da parte di membri del Governo e del Parlamento: «cancro», «metastasi», «pazzi», «antropologicamente diversi»,  parole che, di tanto intanto si sentono rilanciare, e che finiscono per ferire anche le persone che hanno la sventura di fronteggiare malattie usate come clave e per segnare lo scadimento del dibattito pubblico.

È nella fase dei primi segnali di quel contesto, che si collocano le parole dirompenti di Francesco Saverio Borrelli, hombre vertical capace di polso, ma sempre misuratissimo nelle parole, nel 2002, da procuratore generale di Milano all’apertura di un anno giudiziario in cui i magistrati dismettono la toga rossa da cerimonia per portare quella nera quotidiana, al fine di sottolineare la loro preoccupazione per la Costituzione che avvertono minacciata dalle leggi cambiate per ostacolare singoli processi in corso. 

Parlando, davanti al Cardinale Martini arcivescovo di Milano, pronuncia un discorso di cui resterà alla storia solo la parte che più si presta a farne titoli: un triplice “resistere”, che non è come da alcune parti si vorrebbe far credere, un invito a resistere non per opporsi al potere, ma per tutelare l’indipendenza della magistratura.  Sono parole che fanno notizia soprattutto perché diverse dai suoi toni consueti, aggiunte a braccio.

Sono parole che ne seguono altre, meditate, che ha senso ricordare: «Nessuna istituzione, nessun principio, nessuna regola sfugge ai condizionamenti storici e dunque all’obsolescenza, nessun cambiamento deve suscitare scandalo, purché sia assistito dalla razionalità e purché il diritto, inteso come categoria del pensiero e dell’azione, non subisca sopraffazione dagli interessi». Nel loro farsi pubbliche nell’occasione più ufficiale a disposizione, rivelano una decisione di esporsi, che non casualmente coincide con la chiara preoccupazione, non nascosta in quel discorso, per i magistrati del suo ufficio impegnati nel processo Sme, che si sono visti privati della scorta a dispetto di un’esposizione innegabile non solo su quel fronte.

Ne sortiranno – messi in conto – polemiche infinite, querele, rischi disciplinari.

Che cosa vuol dire “uso politico della giustizia”

  

È in quel periodo che si afferma anche l’espressione tuttora in voga, volutamente ambigua, “uso politico della giustizia”: quando usata da un politico sottintende l’accusa alla magistratura di agire con secondi fini politici, ma in senso più generale indica il reciproco utilizzo di decisioni giudiziarie da parte di fazioni politiche avverse per rinfacciarle all’avversario o per difendere la propria parte.

A concorrere alla fortuna di questa locuzione e di questo atteggiamento, contribuisce la legge Severino, del 2012 (Governo Monti), che ne è probabilmente insieme la concausa e la conseguenza: volta alla trasparenza delle istituzioni, àncora ad alcuni provvedimenti giudiziari l’indegnità politica e di conseguenza la decadenza dell’amministratore eletto: qualcosa di cui non ci sarebbe forse stato bisogno se fosse stata più ampia e avvertita nel Paese, la sanzione sociale dell’opinione pubblica verso l’amministratore infedele.


Magistrati e politica, chi li denigra e chi li corteggia

È figlia di quell’epoca la stagione che avvelena i pozzi del dibattito pubblico e che tuttora rende difficile discutere di questioni e di riforme giudiziarie nel merito.

La separazione delle carriere, da allora ciclicamente riproposta, per esempio, è una questione tecnica che ne nasconde una politica: non sposterà di una virgola l’immensa questione dell’inefficienza della giustizia né l’annoso problema della lunghezza dei processi, ma continua a essere agitata come la riforma delle riforme.

Il combinato disposto tra le disfunzionalità del sistema giudiziario (che ha una serie di concause, compresa una farraginosa produzione legislativa) e la sistematica denigrazione della magistratura, intanto, ha finito per amplificare la sfiducia dei cittadini nella giustizia.

Se è vero che l’amministrazione della giustizia deve stare alla larga dalla ricerca del consenso sociale – tentazione non sempre respinta -, è vero che la sistematica sfiducia negli arbitri non depone a favore dell’accettazione delle loro decisioni e di conseguenza del buon funzionamento della repubblica.

All’estremo opposto – ma non necessariamente positivo per la fiducia nella giustizia, anzi – è anche capitato che la politica, o meglio l’antipolitica, in anni recenti, facendo leva sul sentimento di insofferenza verso la cosiddetta casta, abbia solleticato la vanità di un certo tipo di magistrato per così dire un poco incline alla postura tribunizia.

Si tratta di singoli magistrati, del Pubblico ministero in prevalenza, non numerosi ma corteggiati dai media, che li accreditano sulle loro vetrine, ancor prima che nelle aule di giustizia, contribuendo a un consenso che in alcuni casi, ma non sempre, ha finito nel tempo per sfociare in candidature politiche, altre volte soltanto per dare l’impressione di un intento moralizzatore, più di successo in piazza che al vaglio dei gradi di giudizio. Casi che però non bastano a dire, come la politica più ostile all’azione giudiziaria vorrebbe insinuare, che «così fan tutti».

GLI SCANDALI IN CONSIGLIO SUPERIORE DELLA MAGISTRATURA

  

Va detto che la magistratura ha messo del suo nel dirigere la sfiducia soprattutto nel cosiddetto caso Palamara che ha acceso un potente riflettore sulle storture connesse alle procedure di nomina, al Consiglio superiore della magistratura, delle posizioni apicali degli uffici giudiziari.

Curioso, però, e non senza contraddizioni, il fatto che sia proprio la parte politica che meno si fida della magistratura nel suo insieme a dare maggiormente credito alle opinioni – non necessariamente disinteressate – di chi ha mostrato nello scandalo del Csm comportamenti censurabili fino alla radiazione dall’ordine giudiziario in conseguenza di un processo penale concluso con patteggiamento.

È certamente un fatto che merita una riflessione, all’interno e all’esterno, il tema della degenerazione delle correnti e della lottizzazione delle nomine ai vertici degli uffici giudiziari, ma è vero che lo scandalo sopra citato ha avuto sempre due “corni”: nella famigerata notte all’hotel Champagne, a discutere di nomine fuori da ogni regola, non c’erano magistrati da soli, ma magistrati e politici, allo stesso improprio e improvvido tavolo ed egualmente mossi da interessi personali.

Va anche detto che non sono mancati negli anni indagini e processi penali a carico di magistrati (con casi di condanne per reati più o meno gravi), il che è un cattivo segno nel momento in cui evidenzia che chi è chiamato a far rispettare le regole finisce a volte per violarle, anche se forse è un’eventualità parte dell’umana imperfezione, ma un buon segno perché rappresenta la prova che la magistratura come istituzione è in grado di riconoscere l’infedeltà di chi tradisce la propria funzione e tutelarsene.


Togati e laici, malcostumi comuni?

Di recente, un altro scandalo è esploso in Csm: “il caso Natoli” che ha riguardato una consigliera di nomina politica inserita nella sezione disciplinare, sospesa con l’accusa di aver incontrato un magistrato sotto indagine disciplinare per discutere privatamente del suo caso al di fuori delle sedi deputate, violando l’imparzialità e le regole previste dal procedimento.

La vicenda ha posto il tema dell’indipendenza e dei criteri di selezione dei Consiglieri di nomina politica. Nel consiglio superiore è la Costituzione, infatti, a prevedere a garanzia di un bilanciamento di poteri, una combinazione di membri togati (magistrati nominati da magistrati) e membri laici (nominati dal parlamento tra non togati esperti di diritto), che può creare tensioni tra interessi diversi, ma è volta a evitare che solo uno prevalga, a tutela del bene comune: ma mentre si parla, anche giustamente, molto della lottizzazione dei togati e di come arginarla, non si parla abbastanza degli effetti negativi della lottizzazione dei laici, anche se la storia insegna che da qualche decennio il tema esiste anche da quella parte, e non c’è stato solo il caso Natoli a far dubitare che, specie in tempi recenti, l’appartenenza politica, per i membri di nomina parlamentare, abbia premiato nell’ingresso in Consiglio quanto e più dei requisiti di competenza richiesti in Costituzione.

Inerzie e nostalgie del passato

  

Intanto ogni volta che la magistratura sfiora le stanze del potere, si ripete l’accusa di sconfinare nel campo della politica e i due poteri entrano in tensione: c’è del vero nel fatto che quando uno dei poteri è inerte l’altro può rafforzarsi ed è tipico delle situazioni in cui la Costituzione prevede un bilanciamento: quando, per esempio, c’è un vuoto normativo il giudice che non può evitare di esprimersi applica le leggi che ci sono e il suo margine di manovra a livello interpretativo può ampliarsi.

In questo caso tocca alla politica (Governo e Parlamento nelle rispettive prerogative) “tappare” il buco normativo, ma non sempre agisce tempestivamente, magari per timore di fare scelte che possano non incontrare il consenso elettorale. Molte volte, però, l’accusa alla magistratura di sconfinare e di agire per intenti politici nasconde un non detto di nostalgia dei tempi andati in cui una giustizia omogenea alla classe dirigente tendeva a viaggiare a due velocità: accondiscendente con il potere, severa con i le fasce deboli della società. Ma non è il genere di giustizia dalla quale si senta tutelato un comune cittadino in una democrazia.

 


Le leggi si applicano o si interpretano? Una domanda malposta

In occasione dei momenti di maggior tensione capita di sentir ripetere che il magistrato dovrebbe limitarsi ad applicare le norme, evitando di interpretarle, ma è un assunto privo di fondamento perché l’atto stesso di applicare una norma generale e astratta a un caso concreto presuppone un atto di interpretazione.

Non v’è dubbio che leggi scritte meglio, o non contraddittorie tra loro, e una giustizia più celere favorirebbero un diritto più certo e prevedibile, è invece una soluzione fallimentare, come è noto agli addetti ai lavori, la tentazione di produrre leggi troppo dettagliate scritte per legare le mani all’interpretazione, perché, mancando del requisito di generalità e astrattezza, tendono a produrre ingiustizie nella sostanza, obbligando talvolta a trattare in modo rigidamente eguale casi diseguali nella realtà.

Non tocca comunque alla politica sindacare sull’interpretazione corretta di una legge, tema sottratto anche all’azione disciplinare, ma spetta alla Corte di Cassazione, e, nei casi più complessi alle Sezione unite, favorire con l’azione detta “nomofilattica” interpretazioni corrette e uniformi.

Se il processo finisce in piazza

  

Per il 18 ottobre 2024, in coincidenza con l’udienza del processo Open Arms, riservata alle arringhe difensive, i parlamentari della Lega saranno in piazza a sostenere Matteo Salvini, per cui l’accusa ha chiesto 6 anni, di fronte al Politeama di Palermo.

Un gesto che non solo rende la tensione tra politica e giustizia fisicamente evidente, ma dà una sorta di forma fisica alla sgrammaticatura istituzionale che sposta su un piano diverso dal rispetto per le reciproche funzioni tra poteri dello Stato, e da quello proprio della difesa tecnica degli avvocati e dei gradi di giudizio, il processo, mentre intanto Lia Sava a capo della Procura generale di Palermo, ha segnalato al Comitato provinciale per l’Ordine e la Sicurezza pubblica le migliaia di lettere minatorie e di insulti che hanno raggiunto i magistrati impegnati nel processo, chiedendo valutare misure di protezione. È una storia che si ripete, è capitato più volte che singoli magistrati additati dal potere come nemici, siano finiti oggetto di intimidazioni.

Questa modalità di convocare manifestazioni di piazza a sostegno, borderline dal punto di vista della Costituzione che separa i poteri assegnando a ciascuno il suo, ha un precedente che risale al 2011 quando parlamentari Popolo della Libertà, l’11 marzo 2013, giunsero a manifestare sulle scale del Palazzo di giustizia di Milano nel giorno di un’udienza del processo noto come Ruby: tra i presenti Maria Alberta Casellati, in seguito Consigliere del Csm e poi presidente del Senato, e Daniela Santanché oggi ministra del Turismo.

Difficile non vedere in questi gesti, lontani nel tempo ma simili nella sostanza, un tentativo di pressione su chi nelle aule di giustizia deve decidere, per dovere istituzionale e per garanzia verso la cittadinanza, libero da interferenze esterne.





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