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Don Carlo Gnocchi: l’eredità immateriale del “padre dei mutilatini”



Riassumere la figura di don Carlo Gnocchi, l'indimenticato «padre dei mutilatini», nel quintidicesimo anno della beatificazione, avvenuta il 25 ottobre 2009, giorno anche dell'anniversario della nascita (nel 1902), non è cosa semplice. Come non è semplice portare avanti il ​​peso della sua eredità, soprattutto immateriale: amore per i giovani, passione educativa, slancio del cammino, attivismo, quel fare concreto per gli altri che lo aveva portato a dedicarsi a una grande opera di Carità che ne ha travalicato i confini esistenziali.

La Fondazione senza scopo di lucro che porta il suo nome, da lui istituita oltre settant'anni fa per la cura dei bambini vittime di guerra e poliomielitici, è oggi una realtà privata leader nel settore sanitario-riabilitativo e socio-assistenziale con ventitré centri riabilitativi , più due IRCCS, otto RSA e ventotto poliambulatori territoriali sparsi in nove regioni e oltre cinquanta località. «I suoi insegnamenti rappresentano certamente una sfida nel contesto odierno, anche perché ci sono poche realtà educative che propongono valori come la solidarietà, la fraternità, una convivenza capace di combattere il bene comune», commenta don Vincenzo Barbante, presidente della Fondazione Don Carlo Gnocchi , che opera nell'ambito dell'assistenza e della riabilitazione (ortopedica, neurologica, cardiologica e respiratoria) delle persone fragili. «Credo che esista una prospettiva importante, propria della nostra società, che consiste nell'imparare ad avere cura di sé, a non omologarsi, ma nello stesso tempo occorre saper andare oltre per scoprire il fatto di essere ciascuno di noi portatore di un dono che nella sua unicità è volto al bene comune. Chi è fragile non deve essere semplicemente incluso in ragione della sua condizione, ma come valore aggiunto».

Cosa significa guidare una realtà complessa e articolata come la Fondazione, garantendo fedeltà e coerenza al mandato di un fondatore oggi beato e magari presto santo? «Dare risposte ai bisogni del nostro tempo con grande flessibilità, non restare ancorati a modelli del passato, ma essere capaci di un'attenzione alle urgenze odierne. Raccogliendo anche un suggerimento di papa Francesco, siamo chiamati come faceva don Carlo a offrire all'uomo di oggi oltre alle terapie del corpo anche le medicine dell'anima, segni della consolazione della tenerezza di Dio, che don Carlo viveva nel concreto attraverso quel modo di approcciare i piccoli mutilati ei poliomielitici, condividendo con loro quella situazione. Diceva sempre che la prima forma di cura è la relazione. Don Carlo curava gli altri in una logica di inserimento sociale, di integrazione e guardava la continuità dell'esistenza, non solo al particolare, per quanto a volte grave, della sofferenza», spiega.

Con uno sguardo oltre frontiera, nell'ambito della cooperazione internazionale, grazie ai progetti e alle attività della Fondazione Don Gnocchi Ong, si lavora per costruire comunità sempre più resilienti e inclusive: nella parte sud-occidentale dell'Ucraina, a Chortkiv, a sostegno di una casa per disabili trasformata in questi ultimi due anni in casa di accoglienza per profughi di guerra, e in Bosnia, dove è stato appena celebrato il ventesimo anno di collaborazione con il centro di riabilitazione per bambini con disabilità, oggi di eccellenza in quel territorio . Ma anche Bolivia, Ecuador, Myanmar, Cambogia e da poco l'avvio di un progetto con i padri guanelliani per la formazione di terapisti occupazionali nelle Filippine: l'obiettivo è sviluppare modelli formativi incentrati sulla terapia occupazionale e sulla qualità della vita, replicabili in altri Paesi.

Nel solco tracciato da don Gnocchi, il prete che cercava Dio tra gli uomini. Don Gnocchi che, allo scoppiare della Seconda guerra mondiale, si era arruolato come cappellano volontario fra gli alpini e aveva vissuto la drammatica ritirata di Russia. Don Gnocchi, esempio di vera vicinanza cristiana a quanti soffrono. E ancora, don Gnocchi autore delle pagine da brivido del suo scritto più famoso, Cristo con gli alpini.

«Una delle espressioni che più mi colpisce, fra le tantissime, è “malato di infinito”, quella sete di senso che ogni uomo e donna porta dentro di sé. Per lui questa nostalgia di Dio si era concretizzata in un percorso di ricerca continua del suo volto, che riuscì a trovare in coloro che soffrivano, in particolare nell'esperienza della guerra, negli alpini che si affidavano a lui gli ultimi momenti di esistenza. L'uomo, purtroppo, ha poca memoria dei fatti negativi vissuti, che al contrario dovrebbero suonare come un monito a non commettere più certi errori, nella consapevolezza che la vita è fragile. Proprio per questo il suo è un messaggio di grande attualità: dire a tutti di non smettere di cercare il senso, di non arrendersi alla banalità, al conformismo, ma di vivere con originalità l'esperienza straordinaria della vita».

Un'originalità che ci dovrebbe portare a non lasciare indietro nessuno: il particolare per l'universale.

Nella foto, don Vincenzo Barbante al Centro don Gnocchi di Falconara.





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