Sophie vs Parthenope: le Signore di Muccino e Sorrentino e la sfida al box-office – Badtaste
I Bad Movie della settimana sono Parthenope di Paolo Sorrentino e Fino alla fine di Gabriele Muccino.
Premessa
Due grandi registi italiani. Lo stilista sornione che sentenzia a ogni battuta e l’urlatore scalmanato che filma d’impeto. Due approcci diametralmente opposti ormai maturi, esperti, “vissuti” come si dice oggi. Per la prima volta nella loro carriera sono entrambi in sala con una donna protagonista dentro la loro opera. Le signore si chiamano Sophie Ristuccia e Parthenope Di Sangro. Buffa coincidenza.
Parliamo di Gabriele Muccino e Paolo Sorrentino. Altra coincidenza: tornano su grande schermo, affrontando il box office nostrano dopo un bel po’ di anni. Sorrentino mancava dal flop del dittico Loro (2018), Muccino dal successo dopo il ritorno a casa da Hollywood A casa tutti bene (2018) che poi avrebbe generato l’omonima serie Sky arrivata a due stagioni. Qual è stato il loro rapporto con l’incasso in carriera? Prima di confrontare i film tematicamente e stilisticamente e prima di parlare di Sophie e Parthenope e delle loro differenze, ci permettiamo un breve excursus economico nelle prestigiose filmografie dei due e nel rapporto con il pubblico italiano.
Muccino
Ha cominciato (Ecco fatto, 1998) tre anni prima del collega napoletano, è esploso commercialmente quando c’era ancora la lira con il melodramma L’ultimo bacio (2001), tappa chiave del fondamentale decennio 2000-2010 per il nostro cinema in cui torniamo finalmente a incassare con regolarità, ristabiliamo un rapporto con il pubblico nostrano che non vede più i film italiani come “sfigati” e riportiamo la Palma d’Oro di Cannes a casa a 23 anni da L’albero degli zoccoli (1978) nel 2001 con La stanza del figlio di Nanni Moretti. Muccino è cardine in questo fecondo periodo con i 13 milioni de L’ultimo bacio (cifra aggiornata in euro) e gli oltre 10 di Ricordati di me (2003).
Poi il romano viene attirato dallo sconfinato mercato in lingua inglese (come Susanne Bier, Pablo Larraín e recentemente il Pedro Almodóvar di La stanza accanto) accettando la chiamata di Hollywood. Farà il botto pure lì con La ricerca della felicità (307 milioni worldwide) raggiungendo il maggior incasso di sempre per un autore italiano in lingua inglese battendo i 230 milioni worldwide de La vita è bella (1997) di Benigni. È l’apice per lui di una progressione inarrestabile iniziata nel 1998 in cui già si vedeva in Ecco fatto la capacità di un vero grande regista nazional-popolare e borghese che fondeva in lui Europa e America. Cuore e Corpo. Sentimento e Azione. Un Claude Lelouch pompato come James Cameron. Aveva sempre intercettato con forza lo sguardo di uno spettatore maschio famelico come lui all’interno dell’ideologia capitalista, fortemente condizionato su compiti e doveri dell’uomo dentro la spietata competizione sociale. Storie d’amore, litigate, ambizioni di crescita economica, frustrazioni dei suoi protagonisti (sempre uomini) spesso alla ricerca di felicità considerate necessarie per una serenità spesso irraggiungibile anche quando ottenuta.
All’estero si mette al servizio di storie meno personali e dopo il consenso ottenuto con La ricerca della felicità, e la parentesi per il sequel de L’ultimo bacio, eccolo ritornore a casa nel 2018, dopo fase calante nella spietata Hollywood. D’altronde da quelle parti, come dicono tutti i registi che lì hanno lavorato, conti solo quanto il tuo ultimo incasso.
Sorrentino
Autore meno diretto, impetuoso e coscientemente popolare rispetto all’adrenalinico romano, inizierà in sordina con il pubblico dal 2001 del magnifico esordio L’uomo in più fino al 2008 dove fa 4,5 milioni di euro con Il divo (10 milioni di dollari worldwide) seguiti dai 7.3 italici e quasi 25 worldwide de La grande bellezza (2013) che riporta l’Oscar per Film Straniero a casa di quelli (noi) che ne hanno vinti di più dai tempi di De Sica e Fellini (ma la Francia incalza e potrebbe fare il botto nel 2025 con Emilia Pérez). L’Oscar lo “popolarizza”, nasce un suo marchio di storie maschili con uomini arroganti, di solito ricchissimi, annoiati da tutto tranne che dalle loro sentenze ed aforismi. Protagonisti che pare non si uccidano solo perché quello sarebbe considerato un gesto troppo “cringe”, retorico e novecentesco.
Muccino è la voce tonante della borghesia capitalista rampante. Sorrentino è l’ironia di un’aristocrazia affatto decadente bensì saldissima nell’immaginario collettivo come potere e ricchezza intoccabili e ora non più contestabili visto la fine della classe media. Inizia a intercettare i gusti di generazioni di spettatori che non potendo più crescere dal punto di vista socio economico, adorano rifugiarsi nel machismo snob di gangster griffati, come se quel mostrare i muscoli di marca fosse l’unica protezione possibile rispetto a dolori e incertezze ideologiche della contemporaneità. La Gen Z comincia a vederlo come un totem, un guru, un’ispirazione. Lui, come Wes Anderson, comincia a vestirsi come i suoi film. Spleen e Moda. Ricchezza e Nichilismo da instagram. Una copia meno profonda di Federico Fellini mischiata al delirante virilismo dell’ultimo Martin Scorsese.
Fa 5.9 milioni di euro in Italia con Youth a fronte di oltre 23 milioni di dollari worldwide grazie alla lingua inglese e cast di rilievo con Michael Caine, Harvey Keitel e Jane Fonda. Arriva poi il flop di Loro, dittico su Silvio Berlusconi da “soli” 6.5 di box office totale sommando i due film a fronte di un budget riportato di 18 milioni di euro (fonte Variety). Sorrentino veniva dall’ottimo risultato delle due stagioni di The Young Pope.
Fine panoramica. I due si trovano nel 2020 in un momento decisivo di carriera e vita. E come è capitato a tutti i registi di prestigio ed esperienza si trovano a dover fare qualcosa di necessario.
Ricomiciare da quasi zero
Vuoi le fisiologiche pause, vuoi il Covid-19, vuoi le scelte streaming di entrambi ma i nostri due registi mancano in sala ormai da quasi 6 anni. E 6 anni, nell’industria audiovisiva di oggi, sono un’eternità. Muccino ha visto il suo epico omaggio a C’eravamo tanto amati di Scola arenarsi causa covid-19. C’erano tutte le carte in tavola per superare i 10 milioni in patria. Ma Gli anni più belli becca l’inizio di quel faticoso biennio 2020-2022 di apertura e chiusure sale. Sorrentino dal canto suo, come Spielberg, Cuarón, Branagh e James Gray, va in modalità autobiografica ammaliando mezzo mondo con l’entusiasmante È stata la mano di Dio, dove torna a raccontare anche chi non è miliardario: la sua famiglia. Il film lo riporta in cinquina Oscar per Film Straniero e gli fa sfiorare il Leone d’Oro a Venezia (tra parentesi: per l’autore di questo articolo avrebbe meritato, rispetto ad Audrey Diwan de La scelta di Anne). Pare, ma con Netflix non si sa mai con precisione, che abbia fatto la grande bellezza di 7 milioni di euro nei giorni in cui il colosso streaming aveva concesso la distribuzione in sala di questo film così vitale ed emozionante.
Ci ritroviamo ora questi autori così significativi e riconoscibili in sala in questo autunno 2024, distribuiti a soli 7 giorni uno dall’altro. Sorrentino è arrivato il 24 ottobre dopo il passaggio in Concorso a Cannes e l’esclusione come proposta italiana agli Oscar. Muccino è atterrato il 31 ottobre dopo il passaggio alla Festa del cinema di Roma. Al centro dei loro film due donne, due nomi, due letture. Siamo solo all’inizio del gioco per entrambi e non sappiamo dove arriveranno Fino alla fine e Parthenope. Ma proviamo comunque a giocare.
Parthenope
All’inizio ci chiediamo se sia stata la mano di Poseidone o il suo corrispettivo latino Nettuno. Bimba nasce tra le acque che più azzurre non si può di Napoli nel 1950. Parthenope (evidentemente l’hanno proprio chiamata con la H) Di Sangro ha una carrozza proveniente da Versailles come culla, un padrino armatore ispirato ad Achille Lauro (non il cantante), il fratello Raimondo come possibile amante (i due si fermano a stento), la grande bellezza come croce & delizia e l’insolenza come risorsa. Desiderata sessualmente da tutti, è invece desiderosa di tutto: il vecchio scrittore gay John Cheever (incantevole Gary Oldman, avremmo voluto vederlo di più) incontrato a Capri nel 1968, l’antropologia, il miracolo di San Gennaro, un camorrista passionale e lo sfogo feroce di una diva che somiglia a Sophia Loren (che scena volgare e che mancanza di rispetto nell’anno in cui la diva italiana per eccellenza del ‘900 viene celebrata al Lincoln Center di New York).
Questa fanciulla dalla battuta pronta come tanti maschietti sorrentiniani si legherà intellettualmente a un prof burbero ma perbene (“All’università si viene già cacati e pisciati”) e ai baci d’amore preferirà quelli accademici (anche se del suo talento intellettuale non vi è praticamente mai prova nel film). Ogni tanto partono slo-mo in cui sembra di stare in uno spot di Dolce & Gabbana, gli scontri in piazza anni ’70 sono filmati come fossero sfilate di moda con manganelli e molotov al posto di pantaloni e giacche. Sessualità? Parthenope non discerne, va un po’ con chi capita, soprattutto se emana potere come un gangster (qui sentiamo l’approvazione a distanza di Scorsese) o un aspirante Papa. È un personaggio che non è né carne pulsante del ‘900 (pare una tarda Millennial/Gen Z, non certo una Boomer) né pesce mitologico (che bella invece quella scena di Napoli Magica di Marco D’Amore in cui la Parthenope del mito incontra l’uomo che l’ha abbandonata).
Né donna complessa né sirena ammaliatrice. Un aborto? Poche scene e non ci si pensa più. Una tragedia familiare? Idem. Celeste Dalla Porta? Una prova piuttosto scialba, fortemente squilibrata sul piano estetico per volere del regista, ovviamente. Il primo film con donna protagonista di Paolo Sorrentino pare un film diversamente maschile purtroppo più appartenete al periodo antecedente È stata la mano di Dio. È come se il regista avesse capito che, a livello internazionale, la scelta di porre il femminile al comando della narrazione potesse essere lucrosa a livello strategico in chiave post #MeToo. Astuto. Brindiamo alla “metis” dell’autore, in omaggio all’etimo greco di Parthenope, meno al risultato finale.
Fino alla fine
Già colpisce il nome: Sophie Ristuccia (la presenza della H è meno assurda rispetto alla signora di prima in quanto americana). Nella filmografia di Muccino il cognome Ristuccia è quello dei suoi eroi o quantomeno di personaggi spesso chiave dentro il racconto come lui ricorda a Gabriele Niola nel bellissimo dialogo La vita addosso, edito dai tipi di Utet.
Costei arriva a Palermo sull’orlo del suicidio (che scopriremo ha bazzicato precedentemente) dopo giorni di estenuanti visite guidate nel Bel Paese a fianco della sorella maggiore che pare un maggiore dell’esercito. Tour di “chiese, catacombe e sarcofagi” a passo di marcia come se fruire l’Arte sia un lavoro frenetico da “schedulare” con cura e senza un attimo di tregua. Ecco dunque Sophie che si lagna, annaspa, piagnucola e non ne può più. Vorrebbe farsi un bagno. C’è una carrellata magistrale verso l’inizio in cui Muccino si mette al fianco letteralmente della sua protagonista accompagnandola verso il mare. La voglia di Sophie di buttarsi in acqua è la sua voglia. L’eccitazione di Sophie è la sua eccitazione. Si sente pienamente il rapporto di solidarietà e complicità tra macchina da presa (regista) e protagonista (Sophie). Sarà così per tutto il film.
Questa misteriosa ventenne che vorrebbe tanto farsi un bagno a Palermo, apparentemente solare ma con cicatrici ai polsi, proviene da San José, California. Fra poco tornerà a casa perché manca solo un giorno. Ormai insofferente nei confronti della marcia artistica disegnata dalla sorella, scapperà verso una spiaggia dove da un enorme scoglio fallico si gettano dei pischelli siculi con la testa rasata e tanti collegamenti con il mondo slavo. Chi sono? Un branco?
Con Fino alla fine Gabriele Muccino finalmente fa un completo action movie degno del suo amato Cameron perché Sophie, che all’inizio sembra inadeguata, cresce di minuto in minuto rispetto ai ragazzetti dello scoglio molto più infantili, bambocci e disorganizzati di lei. Il film parla di disperazione. Se uno l’ha conosciuta e vissuta pienamente, come Sophie, allora poi è più pronto di altri a sopravvivere qualora dovesse materializzarsi una situazione pericolosa per non dire letale. Più Ristuccia, chiamata come il Silvio di Come te nessuno mai (1999) e il Favino de Gli anni più belli (2022), avanza a tentoni nell’infinita notte palermitana di ballo, sballo, sesso, criminali, pistole, rapine, violenza, inseguimenti, fuga e sparatorie… più Muccino la ama, la scuote e la fa uscire dallo stato di bambina vittimista per accompagnarla dentro quello di donna matura, responsabile delle sue azioni, non più passiva (come invece è Parthenope) ma creatrice del suo destino. Ecco perché si chiama Ristuccia. Perché è a tutti gli effetti una sua eroina. Gli uomini che la circondano? Corollari. È lei che deciderà il suo destino.
Elena Kampouris? Di secondo in secondo cambia la recitazione (eccellente perché anche in una lingua non sua) scoprendo fermezza, aggressività e decisione. Osservate Muccino come la filma e cosa le fa passare in viso, letteralmente, fino alla fine. Sul viso di questa donna vediamo paura, disperazione, ferocia, sollievo e forse speranza.
Conclusioni
Parthenope è partito benissimo (è balzato in testa alla classifica negli infrasettimanali e poi anche nella festività del 1 novembre). Fino alla Fine è appena uscito e stenta a decollare. Auguriamo a entrambi questi cineasti di ritrovare pienamente il pubblico italiano dei cinema. Perché checché se ne pensi, e qualsiasi posizione di preferenza noi si possa prendere sui loro due film, è fondamentale che Gabriele Muccino e Paolo Sorrentino siano su grande schermo con le loro immagini e idee. Oggi e, ovviamente, anche domani.