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Il ruolo (e lo strapotere) di Elon Musk pronto a diventare ‘ministro ombra’ di Trump



«Siamo sull'orlo del precipizio», ha scritto un utente in un post X commentando la foto che ritrae Donald Trump impegnato in una conversazione con Elon Musk e Dana White, due super ricchi che fanno parte del suo staff, a Mar-a-Lago, Palm Beach, Florida, residenza privata e base politica di Trump dove l'ex e il prossimo presidente degli Stati Uniti ha deciso di seguire lo spoglio prima di festeggiare la nettissima vittoria elettorale con familiari, amici, collaboratori, finanziatori, ammiratori da tutto il mondo.

Se non sull'orlo del precipizio (dipende, ovviamente, dai punti di vista), siamo comunque alla vigilia di uno scenario inedito e preoccupante. Il ruolo di Musk – che con un patrimonio di 201,4 miliardi di dollari è, assieme al fondatore di Amazon Jeff Bezos, uno degli uomini più ricchi del mondo – nella campagna elettorale che ha riportato Donald Trump alla Casa Bianca è tutto da capire come proseguirà ora.

Nei mesi scorsi ha svolto un ruolo decisivo per sostenere e finanziare il magnate tanto che lo stesso neo presidente ha annunciato qualche settimana fa che potrebbe dargli un posto nella prossima amministrazione americana come ministro della “semplificazione” e dei tagli. Non potrà avere incarichi ufficiali (a meno che non si disfi delle sue aziende) ma sarà una sorta di uomo ombra per le decisioni che saranno prese nello Studio Ovale.

Se nel passato i grandi potentati economici erano rimasti dietro le quinte di ogni presidenza, ora Musk con la sua strapotenza finanziaria e mediatica – ei suoi interessi distribuiti in settori strategici per l'economia e la stessa democrazia – sarà una presenza costante accanto al presidente. Anche senza incarichi di governo.

Di origine sudafricana, Musk è cofondatore, presidente e amministratore delegato di Tesla (industria dell'automobile elettrica). Fondatore di SpaceX (industria aerospaziale). Cofondatore e amministratore delegato di Neuralink (neurotecnologie). Cofondatore di PayPal (finanza), OpenAI (intelligenza artificiale) e La compagnia noiosa (ingegneria geotecnica). È diventato proprietario di X, l'ex Twitter, manipolandone l'algoritmo in modo tale da imporre anche a chi non lo segue tutti i suoi tweet pro-Trump, per poi vantarsi del gran numero di follower acquisiti.

Con lui, X è diventato, senza contradditorio, uno dei megafoni della campagna elettorale repubblicana con l'intervista fatta personalmente a Trump ad agosto nella quale l'ex presidente ha potuto parlare senza interruzioni di immigrazione ed economia dicendo moltissime cose false. Analizzando i dataset pubblicati da X, i ricercatori del “Center for Countering Digital Hate” hanno scoperto che dal 13 luglio, giorno dell'endorsement ufficiale, al 25 ottobre i 746 contenuti politici postati da Musk – quelli in cui menziona termini associati al voto come “Donald Trump”, “Kamala Harris”, “voto” e “schede elettorali” – hanno totalizzato 17,1 miliardi di visualizzazioni, oltre il doppio delle visualizzazioni di tutti gli “annunci di campagne politiche” negli interi Stati Uniti nello stesso periodo.

Gli uomini d'affari che finanziano le campagne elettorali dei candidati americani non sono certo una novità e con un sistema che negli Stati è anche abbastanza trasparente. Con Musk siamo, però, un capitolo nuovo, diverso, forse più preoccupante per le regole stesse della politica e della democrazia.

Musk ha ufficializzato il suo appoggio a Trump dopo l'attentato subito dal neo presidente a luglio a Butler annunciando donazioni mensili a favore di Trump per il tramite di un comitato elettorale che ha creato ad hoc. L'America Political Action Committee (PAC) è stato fondato a maggio per sostenere Trump tramite azioni come campagne pubblicitarie, ma non può per legge finanziare direttamente il candidato. Del PAC farebbero parte anche altri grandi imprenditori delle BigTech e della Silicon Valley, in passato grande bacino elettorale dei democratici, ma di recente molto più propenso a sostenere politici di destra e conservatori.

Tra questi vi sono, oltre Musk, Pietro Thiel, co-fondatore di PayPal, il finanziere Michel Robert Milkenil cofondatore ed ex amministratore delegato di Uber Travis Kalanick e un'altra decina di persone tra cui Steven Mnuchin, Rupert Murdoch, Marc Andreessen e Ben Horowitz, investitori tra gli altri di Facebook, Stripe, OpenAi e Airbnb. Tutti uniti da una forte avversione nei confronti dell'amministrazione Biden, stanchi del ruolo che la politica dei democratici sta avendo nei confronti del mercato della tecnologia.

I venture capitalist, creatori di famose startup, sono diventati apertamente pro Trump e hanno sorriso alla recente nomina di JD Vance come suo vice, poiché anch'egli è un uomo proveniente dalla Silicon Valley. I tycoon guardano verso The Donald non tanto per questioni ideologiche, quanto piuttosto per opportunità.

Ma torniamo a Musk. SpaceXl'azienda con la quale vuole arrivare su Marte, produce per Washington satelliti, razzi, navette e moduli spaziali, beneficia di sostanziosi contributi pubblici. Ma nel breve periodo Elon punta a mettere in strada le sue Tesla a guida autonoma. «Dovrebbe esserci un processo di approvazione federale per questi veicoli»ha auspicato il 23 ottobre, solo qualche settimana dopo che l'amico Donald aveva proposto di metterlo a capo di una “Commissione per l'efficienza governativa incaricata di formulare raccomandazioni per riforme drastiche del governo federale”. Trump ha detto in campagna elettorale che ridurrà le spese federali con tagli di “almeno 2 trilioni di dollari”. Si farà guidare da Musk e dalle sue politiche di taglio dei costi che persegue nelle aziende?

Quando Musk è tornato con Trump a Butler per tenere un comizio si è sbracciato nel sostenere il leader repubblicano e il politologo americano Ian Bremmer ha twittato: «La democrazia non è fatta per sopportare un conto concentrato di soldi e disinformazione». Con Trump-Musk è nata una nuova leadership che assomma potere e ricchezza in un concentrato forse pericoloso, sicuramente eccessivo, di potere che nulla a che vedere, ad esempio, con la vecchia destra conservatrice. Reagan, Thatcher, hanno cambiato tante cose, nel bene e nel male, ma avevano un sacro rispetto delle regole del gioco. Che ora è saltato completamente.

«Quello che conta ancor più della ricchezza in sé», ha scritto Daron Acemoglu, Premio Nobel per l'Economia, «è che questi miliardari sono considerati dei geni dell'imprenditoria dotati di livelli unici di creatività, audacia, lungimiranza e competenza su una vasta gamma di argomenti. Se a ciò si aggiunge il fatto che molti di essi controllano i principali mezzi di comunicazione, ovvero le principali piattaforme di social media, si ottiene uno scenario quasi senza precedenti nella storia recente».

Le disuguaglianze economiche e sociali sono state una delle chiavi della vittoria di Trump che si è fatto votare da poveri, ceto medio impoverito e spaventato dall'inflazione e dall'immigrazione, ma anche dai super ricchi. Un'apparente contraddizione tenuta insieme dalla leadership del tycon che se è definita un “povero con i soldi”.

La risposta della politica (americana, ma non solo) alle disuguaglianze crescenti è un altro punto critico individuato da Acemoglu in questo groviglio tra potere e ricchezza: «Naturalmente, non è tutta colpa dei miliardari se la politica statunitense sta favorendo l'aumento delle disuguaglianze (anche se di certo essi spingono per politiche che vanno in questa direzione). Tuttavia, se abusano dell'immenso status sociale che la ricchezza offre loro in condizioni di crescente disparità, questi soggetti dovrebbero assumersi le loro responsabilità», la riflessione del Premio Nobel, «Ciò vale in particolare quando sfruttare il loro status per promuovere i propri interessi economici a scapito degli altri, o per polarizzare una società già divisa con una retorica provocatoria o comportamenti mirati alla ricerca di prestigio. Esercitando già un'influenza sociale, culturale e politica eccessiva, l'ultima cosa che dovremmo volere è offrire a questi miliardari fuori controllo delle tribune pubbliche ancora più ampie, ad esempio sotto forma di un proprio social network, come nel caso di Musk attualmente proprietario di X. Bisognerebbe invece avvalersi di mezzi istituzionali più forti per limitare il potere e l'influenza di quanti sono già dei privilegiati, e rivedere le politiche fiscali, normative e di spesa che sono all'origine di queste enormi disparità».

Servirebbe più politica, ma la politica sembra fagocitata, da queste figure, certamente visionarie e geniali, che assommano ricchezza e potere, che vuol dire controllo dei social. L'abbraccio tra Musk e Trump dimostra che il baricentro del potere nelle democrazie occidentali si è spostato e che la politica – governata da regole precise, pesi e contrappesi – ne ha perso molto a vantaggio di altri soggetti, quelli che Giuseppe De Ritasociologo e mitico presidente del Censis, ricordava in un'intervista recente al Corriere della Sera: «Il potere oggi è nelle filiere produttive, nelle grandi piattaforme, tutte entità orizzontali. Il potere sta lì, non nel Parlamento, nell'elezione diretta del leader: tutte cose che, per carità, tra trent'anni ne parleremo ancora quando io sarò morto da un pezzo». E riferendosi all'amicizia tra Giorgia Meloni e lo stesso Musk, aggiungeva: «È che secondo me la Meloni, per fiuto, quando parla con gente come Larry Fink di Blackrock, o altre piattaforme estese, è perché ha capito che l'influenza è lì. Se si mette in posa estasiata di fronte a Elon Musk, forse è perché ha capito che lui fa parte di un potere che magari non si conosce bene, ma probabilmente può più della lotta per il premierato».

Con Musk ogni governo, soprattutto quelli europei, dovranno parlare: «Ha un monopolio sostanziale sui satelliti. Puoi permettere di non parlare con Musk?», aveva dichiarato qualche tempo il ministro della Difesa Guido Crosetto in audizione in commissione Affari esteri e Difesa del Senato.





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