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Ma Partenope di Sorrentino è un film blasfemo?



Partenope di Paolo Sorrentino è un film che divide, su questo non c'è alcun dubbio. C'è chi lo ha esaltato come sublime capolavoro di poesia, metafora del tempo della giovinezza “che sì fugge tuttavia”, canto dolente di libertà che ha come fondale Napoli, e chi l'ha definita una pellicola piatta, lenta, avvolta nei luoghi comuni che da sempre circondano questa città dalle mille contraddizioni. C'è poi quella scena scabrosa e grottesca che irride al miracolo di San Gennaro e che ha irritato molti napoletani, non solo tra i parroci ei fedeli. E allora da che Partenope guarda? Per monsignor Davide Milani, da nessuna delle due. Milani è presidente della Fondazione Ente dello Spettacolo, direttore della Rivista del Cinematografo e segretario della “Fondazione Pontificia Cultura per l'educazione” del dicastero Cultura per l'Educazione della Santa Sede. «Il film», spiega, «si colloca in continuità con parte della filmografia di Sorrentino e rimanda ovviamente, come itinerario, alla Grande Bellezza. Un film che ha fatto il giro del mondo e che ha vinto un Oscar».
La protagonista è come Jep Gambardella?
«Direi proprio di n. Qui lo sguardo non è più sulla bellezza di Roma ma sulla magnificenza tragica di Napoli (almeno secondo lo sguardo di Sorrentino). Rispetto alla Grande Bellezza, a mio parere Partenope è differente e ha anche esiti diversi». E quali? «Il regista forse è eccessivamente fiducioso nella conoscenza di Napoli».
Napoli è la città dove è nato e ha vissuto per lungo tempo, prima di andarsene…
«Forse proprio per questa pecca di eccessiva sicurezza nel vederla, nel raccontarla e nel rivolgerle le sue riflessioni. Come l'invettiva contro la città che mette in bocca a una donna malinconica e sfiorita (Sophia Loren?) sul ponte di una nave, interpretata da Luisa Ranieri. Per fare un'invettiva così contro una città ei suoi abitanti bisogna essere sicuri di conoscerla a fondo. E anche averne i motivi. Anche Goffredo Fofi ha notato che, nei confronti dei napoletani, quel monologo sferzante è eccessivo. La crescita, sotto tutti i punti di vista, anche sociale, di questa meravigliosa città non si merita queste parole».
Dunque quale giudizio possiamo osare?
«Quello che noto è questa sicurezza di sé da parte di un maestro della cinematografia che anche nel film lo porta a confidare troppo nell'estetica». Un film eccessivamente estetico, dunque, forse troppo legato alle emozioni sensoriali scaturite da quelle immagini? «È un film molto estetico in toto: dallo sguardo sulla città alle molte cartoline naturalistiche sul Golfo, agli spaccati stereotipati dei bassi di Napoli, fino ovviamente all'estetica del protagonista, con questo sguardo seducente rivolto alla camera e dunque allo spettatore. Seduttivo non solo in senso fisico, ma anche come modello di donna che si propone di essere libera e quindi non posseduta da niente e nessuno, sfuggente da tutto: fidanzati, corteggiatori, familiari, con l'illusione di essere superiore a tutto. Al tramonto della sua vita, riceve un lungo applauso».
L'applauso all'Università di Trento dei colleghi e degli studenti, prima di andare in pensione…
«Sì. Quell'applauso in fondo è l'omaggio, la celebrazione di un modello».
Il modello “Partenope”?
«Sì. E comunque anche in questo caso l'approccio è sempre estetico, che si parla di filosofia o di antropologia. Ma il problema è che non si va mai a fondo di niente. Si può andare a fondo delle cose in un film, ma qui questo approfondimento non si vede…».
Nonostante in un dialogo con il professore interpretato da Orlando si dice che l'antropologia è “vedere le cose”?
«Ma neanche in questo caso si approfondisce cosa significa vedere le cose. Nel film questo non avviene mai. Va bene essere misteriosi, ma non eterei. L'unico personaggio ben tratteggiato e profondo è il docente universitario impersonato da Silvio Orlando».
Che ne pensa della ormai celeberrima scena blasfema incentrata sul miracolo di San Gennaro? La protagonista, vestita con i gioielli del santo, ha un amplesso con il vescovo di Napoli interpretato da Peppe Lanzetta.
«Dentro questo sguardo etereo e quelli che sono i limiti del film, va inquadrata la vicenda della figura del cardinale e del miracolo. Sappiamo quanto piaccia provocare a Sorrentino. Pensiamo alla serie The Pope. Anche questo film, del resto, è ricco di provocazioni. Pensiamo al figlio “acqua e sale” fantasmatico, all'invettiva di un'improbabile Loren, a episodi e personaggi della storia di Napoli tratteggiati in maniera caustica, come Achille Lauro. Dentro a questo amore per la provocazione c'è anche la vicenda del cardinale e di San Gennaro. Ma non vedo un attacco alla Chiesa pensato e premeditato».
C'è chi l'ha definita una scena sacrilega.
«Diciamo che quella scena non è a sconto su Sorrentino e sulla sua preoccupazione di raccontare le caratteristiche di una città. Fa parte di queste cartoline che ci manda e assembla secondo un disegno, secondo lui filosofico. Ma se prendiamo il martire del cristianesimo San Gennaro, patrono di Napoli, se consideriamo questo aspetto misterioso del prodigio, estraniandolo dal suo contesto nativo di fede e di Tradizione (con la T maiuscola), allora vale tutto. Gennaro è un santo che ha dato identità culturale a una città così profonda e che ha mosso la fede di milioni di persone. Se lo togliamo da questo contesto vitale, lo facciamo diventare come la pizza, il mandolino, Maradona, le canzoni di Salvatore Di Giacomo, Totò, le commedie di Eduardo: allora vale tutto e non vale niente».
San Gennaro dunque non è considerato quello che è: un simbolo di fede.
«I simboli chiedono di essere riconosciuti per poterne disporre ed entrare in dialogo con l'Assoluto. San Gennaro rappresenta l'anima della città. Se il simbolo non lo si riconosce, lo si annienta».
La scelta di una protagonista femminile chiamata Partenope, che richiama la sirena leggendaria, potrebbe alludere a una visione mitologica della città. Come vede questa sovrapposizione tra mito e fede?
«Non vedo una sovrapposizione. Sorrentino ha spiegato che ha deciso di fare il film vedendo una ragazza uscire dal mare come una sirena. Non lo contrappone alla fede. San Gennaro non è contrapposto a Partenope, ma è, come ho spiegato, uno degli aspetti caratteristici della città».
Sorrentino è noto per il suo stile estetico molto ricercato, a tratti quasi barocco. Credi che questo approccio possa comunicare valori spirituali o rischiare di distrarre dal messaggio di fondo?
«Il film ha diviso le platee degli spettatori. In chi è piaciuto ha suscitato grande entusiasmo. Ho cercato di capire il perché. L'estetica non è mai innocua. Il regista convince lo spettatore, lo seduce e gli dà le risposte prima di fargli le domande. L'estetica ti entra nei sensi prima delle domande. Un aspetto è questa sensazione della bellezza della giovinezza che abbiamo perso. Ti arriva subito. In fondo siamo tutti nostalgici anche se non ci eravamo posti quelle domande che ti seducono».
Significa che in “Partenope” le risposte arrivano prima delle domande?
«Sì, è un po' come quando senti il ​​profumo del caffè e ti viene voglia di berlo. Il profumo ti seduce, ti invita a un'emozione. In Partenope sei sedotto dal modello di libertà di questa donna che non è mai di nessuno. Ma questa non è libertà; la figura della protagonista fa tristezza».
E perché? Perché rimane sola?
«Non sappiamo dopo il suo trasferimento a Trieste dove si sia spesa la sua vita. Come se essere liberi significasse non essere mai di nessuno, mentre la vera libertà vuol dire perdersi dentro gli altri, mettersi in gioco per qualcuno: per una passione educativa, per un amore, per una missione, per una comunità, per un figlio. Per questo professore il professore interpretato da Silvio Orlando è per me un personaggio molto positivo. Mentre Partenope a me fa tristezza».





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