Un giorno di ordinaria chemioterapia e una ricetta per dimenticarla
L'intervista della nostra Francesca Fiocchi e Adrianaaffetta da un tumore al seno, ha suscitato un grande interesse sui social. Dopo la pubblicazione dell'intervista si è imbattuta in molti lettori che stanno affrontando una lotta e una sfida simile alla sua. Si è creata una piccola comunità di speranza. Il suo ottimismo ha ispirato chiunque stia affrontando un tumore, come è accaduto a lei, o di qualsiasi altra malattia. Per questo abbiamo deciso di affidarle un diario dedicato a tutti coloro che vivono la sua stessa esperienza. Sono parole di gioia e di fiducia le sue, nonostante tutto, perché Adriana è una pacifica e dolce guerriera. E sarà contentissima di rievere messaggi o scambiare pareri con chi si è ammalato, con chi ha un amico o un parente in difficoltà, con chi grazie a Dio è sano (la malattia, in fondo, è solo uno stato d'animo). In calce a questo post troverete la sua mail. «Ci sono due modi di vivere», aveva detto nell'intervista. «Uno è pensare che niente è un miracolo. L'altro è pensare che ogni cosa è un miracolo. È curioso che ci affanniamo tutta la vita a vivere nel primo modo per poi capire, rileggendola all'indietro, che andrebbe vissuta nel secondo. Al di là del bene e del male». Buona lettura; ea tutti coloro che la leggeranno auguriamo un bellissimo lieto fine.
di Adriana Tosca
Sono le cinque del mattino, e non ho chiuso occhio. Nonostante tutto, la terapia è diventata parte della mia routine, un appuntamento immancabile che affronto con l'automaticità di chi sa già come andrà. Eppure, la notte prima di ogni seduta non riesco a dormire. Ma perché? Mi ripeto che è “terapia”, ma mi chiedo che senso abbia chiamarla così, anche se serve a guarire. Personalmente preferisco chiamarla “veleno”. Ha più senso. Forse c'è chi la chiama con un nome proprio, come Cassandra, o chi non riesce neanche a parlarne.
Ore otto. Sono seduta su una poltrona che gli infermieri chiamano “comoda”. In verità, la sento più simile a una sedia d'esecuzione. L'infermiera assegnata a me si muove in modo metodico, quasi meccanico. La sua freddezza mi colpisce più di quanto vorrei. Niente sorriso, nessuna parola di conforto. Non incrocia nemmeno il mio sguardo, come se tutto questo fosse solo un lavoro come un altro. Mi chiedo a cosa starà pensando: forse alla cena di stasera oa quel vestito in vetrina che spera di indossare un giorno, magari quando avrà perso quei due chili in più. Ed eccomi lì, a chiedermi: come è possibile che lei sia lì a pensare a cose così normali, mentre io sono qui, piena di paura?
Mentre il veleno (ma anche la medicina) si fa strada nel mio corpo, sento il cuore battere più forte. Chiudo gli occhi e, per un attimo, provo a immaginarmi al suo posto. Cosa cucinerei stasera? No, pensiero sbagliato. Non riuscirò a mangiare nulla, lo so già. Allora penso a quel vestito in vetrina, a me con quell'abito leggero, come una persona qualsiasi. Poi mi rendo conto che anche quello è un pensiero inutile: non posso permettermi un vestito così adesso. Riapro gli occhi e ritrovo la mia paura, lì, ferma ad aspettarmi.
Finalmente sono a casa, nel mio rifugio. La mia cuccia, come mi piace chiamarla. Non voglio pensare a domani, a cosa accadrà. Cosa cambierebbe? Mi darebbe solo altra paura. Ma poi realizzo che sono qui, in piedi, lucida. Cosa posso fare? Mi scappa un sorriso. Decido di mettermi ai fornelli e penso: «Veleno, Cassandra, o terapia… oggi ho vinto io». Mi metto a cucinare qualcosa di buono, anche se non so se riuscirò a mangiarlo. Ma non importa: lo cucinerò per regalarlo, e così che, così, sorriderò qualcuno.