Dossier: Final Destination, la Morte come variazione soprannaturale sul tema dello slasher
12/11/2024 recensione film Final Destination di Francesco Chello
Ricordiamo Tony Todd attraverso un cameo di pregio che porta fortuna ad un film che propone un’idea mezza matta, tanto onesta quanto divertente, un canovaccio caratteristico e riconoscibile a base di incidenti ed uccisioni fantasiose
Se bazzicate con discreta frequenza questi lidi immagino siate persone con le giuste preferenze cinematografiche e che quindi, come noi, abbiate un (cine)occhio di riguardo per il cinema di genere. Un mondo nel quale la notizia di questi giorni non può che essere la scomparsa di Tony Todd, avvenuta lo scorso 6 novembre. Attore statunitense che può vantare esperienze di un certo livello nel cinema e nella tv a 360 gradi, ma che proprio in quello di genere può essere definito volto (e voce) iconica e riconoscibile.
Nato a Washington il 4 dicembre del 1954, Anthony Tiran Todd cresce nel Connecticut in cui arriva a laurearsi. Successivamente studia recitazione all’Eugene O’Neill National Actors Theatre Institute e al Trinity Rep Conservatory, dove perfeziona le sue abilità e sviluppa un’eccellente presenza scenica. 1,96 d’altezza non passano inosservati, specie se ci si aggiunge una voce profonda, eleganza. La capacità di passare da ruoli carichi di inquietudine ad altri dal fare avvolgente e rassicurante.
Che fuori dal set viene ricordato come uomo generoso, entusiasta, affabile, caloroso come la sua risata. Tra le primissime esperienze si segnalano subito titoli degni di nota. Penso a Platoon, diretto da Oliver Stone nel 1987 e vincitore di 4 Oscar, in cui Todd interpreta il sergente eroinomane Warren. Oppure a Colors di Dennis Hopper e Bird di Clint Eastwood, entrambi del 1988.
In seguito prenderà parte a The Crow (Il Corvo, di Alex Proyas) del 1994 o The Rock (di Michael Bay) del 1996. Nel 1990 l’approccio (probabilmente inconsapevole) a quell’horror che segnerà la sua carriera, ovvero la parte da protagonista nel remake (bello e rispettoso) di Night of the Living Dead (La Notte dei Morti Viventi) firmato da Tom Savini.
Sarà il primo di tanti ruoli in un genere in cui lascia il segno anche grazie (se non soprattutto) al personaggio che gli viene offerto nel 1992, il lead role in Candyman di Bernard Rose, ripreso poi anche negli altri capitoli della saga. Boogeyman che nasce dalle pagine di Clive Barker e che gli permette di entrare in un club di maschere immortali riservato a pochi fortunati.
Quel tipo di esperienza che gli conferisce una sorta di aura orrorifica per la quale viene contattato (ed ingaggiato) spesso anche per piccole collaborazioni in tanti prodotti di categoria più o meno meritevoli, da Wishmaster ad Hatchet (1 e 2) giusto per fare un paio di esempi.
Nel frattempo non disdegna la televisione, lo ricordano i trekker per le sue partecipazioni a Star Trek. The Next Generation, Deep Space Nine e Voyager. Ma il curriculum da piccolo schermo conta una lunga serie di esperienze sui set di X-Files, Hercules, Xena, Beverly Hills 90210, 21 Jump Street, MacGyver, La Signora in Giallo, NYPD Blue, New York Undercover, Smallville, Streghe, Law & Order, C.S.I. Miami, Boston Public, Criminal Minds, Stargate SG-1, Boston Legal, Chuck, Senza Traccia, Scream: Resurrection, Dead of Summer.
Per non parlare dei contributi da doppiatore, dal cinema con Transformers: Rise of the Fallen e Il Regno di Ga’Hoole, alle serie d’animazione come Transformers Prime, The Flash, Batman: The Brave and the Bold, Masters of the Universe, passando per i videogames come Star Trek (The Next Generation: Klingon Honor Guard ed Elite Force II), Call of Duty: Black Ops II o Spider-Man 2.
Ed è proprio nella carriera di Tony Todd che, come altre volte in questi casi, vorrei pescare un titolo per omaggiarne la memoria. Ho pensato a Final Destination del 2000. Un omaggio stavolta un po’ sui generis, considerando che in quel film il suo è un semplice cameo (di pregio) di appena tre o quattro minuti.
Ma che innanzitutto conferisce valore all’idea che sta alla base del film (ed al film stesso). Inaugura per certi versi una tradizione, visto che l’attore ritorna in carne ed ossa nel secondo e nel quinto capitolo, partecipando come doppiatore al terzo e legando il proprio nome ad una saga che, non a caso, viene citata di frequente nei vari coccodrilli su Todd e la sua vita lavorativa.
E certifica quella sua predisposizione al ruolo di guest star di cui parlavamo in precedenza, fatto di partecipazioni più o meno piccole in titoli di genere in cerca di una presenza evidentemente di ‘peso’.
Final Destination nasce da un’idea di Jeffrey Reddick, che inizialmente concepisce il soggetto per un episodio di X-Files. Lo spunto nasce da un avvenimento realmente accaduto, quello di una ragazza che in seguito al presentimento della madre aveva deciso di non prendere un aereo che finirà poi per schiantarsi.
Ma sono diversi (e sospetti) anche alcuni punti in comune col concept di Ragnatela di Morte (Soul Survivor) del 1983. In seguito Reddick cambia destinatario e propone la cosa alla New Line che gradisce e lo incarica di buttare giù una sceneggiatura chiedendogli di cambiare i protagonisti (inizialmente un gruppo eterogeneo di adulti che non si conoscevano tra loro) in teenager da high school per cavalcare l’onda del successo di Scream e dei teen slasher che ne erano conseguiti.
A lavoro ultimato, lo script del film originariamente intitolato Flight 180 (poi cambiato per evitare che potesse essere confuso col genere di Air Force One o Con Air) passa però nelle mani di James Wong e Glenn Morgan per una riscrittura a base di modifiche che potessero renderlo compatibile alla visione del primo che intanto era stato scelto per dirigere il progetto.
Wong e Morgan che dichiareranno di aver pensato ad un qualcosa che potesse differenziarsi dal solito slasher. Quando poi, in sostanza, Final Destination può essere visto come una variazione in salsa sovrannaturale proprio sul tema slasher. Il boogeyman che solitamente ammazza tutti c’è… ma non si vede!
In pratica il serial killer è nientemeno che la Morte stessa, che non è solo filo conduttore della vicenda ma anche esecutore materiale degli omicidi perpetrati sottoforma di fantasiosi incidenti che sembrano omaggiare alcune dinamiche analoghe (nel principio del caso/fato gestito da forze occulte) dell’Omen di Richard Donner e che diventano leitmotiv del film (e poi della saga) insieme all’incidente iniziale.
In poche mosse viene settata la mitologia di quello che di lì a poco diventerà un franchise, dal numero 180 alle premonizioni, la catastrofe di turno che fa da prologo, passando per le uccisioni dei sopravvissuti che vengono eliminati gradualmente nei modi più disparati ed elaborati, la ricetta richiesta dallo spettatore di Final Destination è piuttosto semplice.
Io, ad esempio, non mi definirei un fan della serie, ma quando mi capita un’occhiata gliela concedo senza problemi divertendomi di fronte ad un menu onesto a base di persone ammazzate male.
Il film si apre con un incidente aereo, una sequenza breve ma incisiva. Con i suoi due minuti, infatti, sarà l’opening disaster più corta di una saga che farà del more of the same il suo motto. Incisivo perché la sua realizzazione è buona, effettisticamente credibile, sufficientemente concitata nell’unire dramma e spettacolarizzazione.
Situazione che cerca dei collegamenti con la realtà, non solo nel sopracitato evento reale che aveva fatto da base per il soggetto ma anche nelle immagini mostrate al telegiornale che sono quelle di un volo della TWA precipitato nel 1996 o la musica di John Denver, musicista morto qualche anno prima proprio in un disastro aereo.
Il tema portante di Final Destination è quello del destino a cui non si può sfuggire, l’arrivo del cosiddetto ‘proprio momento’ che non può essere bypassato ma semmai soltanto rimandato di poco (e con gli interessi), una struttura ad eliminazione alimentata da un mood indovinato che viene fortificato in corso d’opera da un una serie di segni premonitori sparsi – alcuni più o meno evidenti di altri, tipo un numero, il vento, un’ombra, un gufo su un albero.
Sceneggiatura che mostra anche un gradito gusto citazionista nella scelta dei nomi dei personaggi: Terry Chaney dall’attore (padre e figlio) Lon Chaney, Tod Waggner dal regista George Waggner, Alex Browning dal regista Tod Browning, Larry Murnau dal regista F.W. Murnau, l’agente Schreck dall’attore (volto di Nosferatu) Max Schreck, Blake Dreyer dal regista Carl Theodore Dreyer, Howard Siegel dal regista Don Siegel, Billy Hitchcock dal grande Alfred Hitchcock, Valerie Lewton dal produttore Val Lewton.
Il bodycount ufficiale parla di ben 292 vittime, numeri che potrebbero far gongolare gli amanti della carneficina se non fosse che il totale è chiaramente alterato dalle vittime (dichiarate) del disastro aereo; il bodycount effettivo è di appena cinque morti, di cui una (l’ultima) fuori campo, col senno di poi (e di un rewatch a distanza di anni) è forse questo il tasto su cui avrei spinto maggiormente e non credo sia un caso se a farlo saranno proprio i suoi sequel, alcuni dei quali probabilmente anche migliori del capostipite da questo punto di vista.
E dire che il repertorio non era neanche malaccio, tra il tizio strozzato a quella che finisce sotto l’autobus, con la morte più articolata che viene riservata alla professoressa mentre la palma del più gore spetta con merito alla decapitazione (all’altezza della bocca).
Il main cast è necessariamente giovanile, include alcuni volti mediamente noti del periodo come Kerr Smith che all’epoca prendeva parte a Dawson’s Creek, o Seann William Scott che l’anno prima aveva dato il volto a Stiffler di American Pie. Per il ruolo del protagonista viene scelto Devon Sawa, già attore ragazzino che sembrava in rampa di lancio salvo perdersi un po’ per strada – un periodo a cui lui stesso ha fatto riferimento nel sentito omaggio a Tony Todd da lui definito un amico anche nei suoi momenti più bui.
Per la controparte femminile si opta per Ali Larter, l’unica che torna anche nel primo sequel, un love interest molto più soft di quanto prevedeva una prima bozza dello script. Due personaggi, quelli di Alex Browning e Clear Rivers, per i quali inizialmente si era pensato a Tobey Maguire e Kirsten Dunst, che curiosamente reciteranno fianco a fianco nella trilogia di Spider-Man firmata da Sam Raimi tra il 2002 ed il 2007.
Restando in ambito di cast attoriale, veniamo finalmente al nostro uomo. Tony Todd interpreta William Bludworth, impresario delle pompe funebri e, coincidentemente, esperto di Morte con la M maiuscola. Molti fan hanno persino speculato sul fatto che il suo personaggio potesse essere la personificazione umana della Morte o quanto meno un rappresentante della Morte, ma sia i produttori che lo stesso Todd hanno sempre smentito.
Nel primo Final Destination è lui a mettere in guardia Alex con un paio di battute efficacissime. Cito un dialogo per intero, per rendere l’idea:
What you have to realize is that we’re just a mouse that a cat has by the tail, every single move we make from the mundane to the monumental, the red light that we stop at or run, the people we have sex with or won’t with us, the airplanes that we ride or walk out of, it’s all part of Death’s sadistic design. Leading to the grave. By walking off the plane you cheated Death. You have to figure out when it’s coming back at you. I’ll see you soon.
Ora giuro di non voler cadere nella facile retorica dell’elogio post mortem, ma a Todd basta quella manciata di minuti ed alcune linee di copione ben assestate per rubare la scena, dare un contributo tangibile al film e finire tra le cose migliori.
Un cameo prezioso, non per niente dicevamo che il suo personaggio compare di nuovo nel secondo e nel quinto capitolo del franchise ed avrebbe dovuto essere presente anche nel reboot Final Destination: Bloodlines previsto per il 2025 – attualmente in post-produzione, la sua partecipazione viene data per presunta, bisognerebbe capire se era (ed è) prevista una sorpresa e se, nel caso, l’attore abbia fatto in tempo a girare le proprie scene.
Final Destination esce nelle sale statunitensi il 17 marzo del 2000 per poi arrivare in quelle italiane il 25 agosto dello stesso anno. Alla fine della corsa saranno quasi 113 i milioni di dollari incassati in giro per il mondo a fronte di un budget di appena 23 milioni.
Numeri che portano ad un destino inevitabile che non è la Morte ma la realizzazione di quattro sequel usciti dal 2003 al 2011, oltre ad un già menzionato reboot in arrivo il prossimo anno. L’inizio di un franchise che attraverso un’idea mezza matta, onesta quanto divertente, irrompe col suo canovaccio caratteristico e riconoscibile nell’horror del nuovo millennio. Con la benedizione di un’icona del genere come Tony Todd.
Di seguito trovate la scena con la morte del treno dal primo Final Destination:
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