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«Siamo tutti a rischio ‘demenza digitale”, ma un futuro diverso è possibile»


Una guerra mondiale frammentata, una crisi ecologica e una energetica in corso, senza dimenticare una pandemia appena superata che ha lasciato profonde cicatrici soprattutto nei giovani rendono il nostro presente complesso come poche volte nella storia recente. Avere gli strumenti necessari per leggerlo e interpretarlo è fondamentale per poterlo spiegare ai più giovani.

Per questo la professoressa Antonia Chiara Scardicchio, pedagogista specializzata in pedagogia generale e in educazione degli adulti, ha scritto “Futuro fragile, futuro possibile” per mettere al servizio di questa missione uno “strumentario” a chi si prende cura del futuro dei ragazzi dagli insegnanti agli educatori, dai genitori agli operatori pastorali. L'autrice – che interviene in un incontro aperto a tutti e gratuito Giovedì 14 alle ore 18.00 all'Università Cattolica di Milano insieme al direttore di Famiglia Cristiana Stefano Stimamiglio e Simone Bruno, direttore editoriale Edizioni San Paolo – fornisce una proposta educativa fatta di suggerimenti sia per svolgere un lavoro di analisi esteriore sia per compiere un percorso interiore, in modo che questo tempo di crisi diventi tempo di rinascita e si riesca a risvegliare nei giovani la speranza nel futuro.



Stiamo vivendo un periodo chiaroscuro come lo definisce lei, ma che mette in crisi l'educazione in ogni ambito per via dell'onnipresenza del digitale, a volte alleato, ma spesso distrazione…

«Esatto, stiamo vivendo un tempo assolutamente inedito con esperienze crescenti di violenza, non solo verso gli altri, ma anche verso se stessi. Pensiamo all'aumento esponenziale dei gesti di autolesionismo, non soltanto tra adolescenti, ma addirittura anche in età pediatrica. E questo avviene trasversalmente in tutte le famiglie indifferentemente dalla condizione economica e sociale. Perché quello che i bambini vivono già da piccolissimi è l'esperienza della “demenza digitale”».

Ci spiega cosa significa e chi riguarda in particolare?

«Nella sua forma digitale la demenza è causata dall'uso intensivo e prolungato di Internet ed in generale delle tecnologie digitali. E riguarda non soltanto la perdita di alcune competenze fondamentali, che costituiscono il cuore del nostro funzionamento cerebrale come l'attenzione e la memoria. Tutti, e sottolineo proprio tutti, adulti e piccoli, facciamo esperienza di fare fatica a ricordare ea concentrarci in seguito all'essere stati o per scelta o perché esposti dai genitori, troppo a lungo connessi. Ma non c'è solo questo, possiamo dire che nella demenza digitale rientra anche la difficoltà crescente di fermarsi, di chiedersi il senso di quello che stiamo facendo, anche di quello che stiamo pensando. Viviamo in un mondo 2x, una realtà accelerata, per cui facciamo tantissime cose contemporaneamente e questo pone la nostra mente in situazione di sovraccarico».

Toppo spesso questo nella società odierna è un vanto, come invertire la rotta?

«È molto difficile perché oggi la nostra mente riceve e gestisce tantissimi stimoli. Questa sovrabbondanza viene elaborata e tradotta come uno stress continuo e costante che pesa sulla testa e sul corpo delle persone. Un esempio che rende plastica la situazione è lo scrolling che facciamo sul cellulare: è scientificamente dimostrato che altera i circuiti dopaminergici. Che ci chiede ancora più stimoli e allo stesso tempo affatica il nostro cervello e il corpo, ormai saturi. Per questo parlo di futuro fragile, che ha come altra faccia della stessa medaglia un futuro possibile».

Da dove parte allora il futuro possibile?

«Dalla domanda di speranza. Che è quella che mi riguarda come educatrice. La domanda di speranza non è la sottrazione dalla realtà o la negazione dei problemi, quella dell' “andrà tutto bene” che ci siamo detti in passato e che magari quotidianamente utilizziamo come strategia di attraversamento della difficoltà. Ha invece a che fare con il chiamare per nome la realtà e quindi innanzitutto dobbiamo riconoscere che c'è una perdita esponenziale dei processi riflessivi, dell'interrogarsi su cosa possiamo continuare a imparare sempre, anche da adulti. Non solo sull'esame o il compito che ci stressa, ma anche sulla vita e sulla fragilità. Saper affrontare questo è ciò che chiamiamo educazione sentimentale: è attraverso la nostra capacità di farci domande, di fermarci e di mettere a fuoco quello che ci accade ma anche quello che sta succedendo ai nostri figli o ai nostri studenti che cresciamo come persone».



Questo come si applica e declina nei rapporti educativi che gli adulti hanno verso ragazzi e bambini?

«Partiamo da un aspetto pratico: è decisivo parlare ai giovani, che sia mio figlio o il bambino che alleno nella squadra dell'oratorio o che seguo al catechismo, mentre non faccio un'altra cosa. Un altro esempio che faccio è quello di imparare a tavola a lasciare andare, anzi, a togliere le notifiche che arrivano sul cellulare e prenderci il tempo per pranzare o cenare facendo soltanto una cosa alla volta, rallentando. Così come evitiamo di offrire a un bambino un cellulare da guardare a tavola, piuttosto guardiamolo negli occhi, ascoltiamolo e parliamogli. Un altro aspetto per i genitori è quello di allenarsi alla fatica a stare accanto a un figlio che piange: che le lacrime escano per una caramella negata, piuttosto che per un dolore grande. Credo che gli adulti possano imparare la fatica dello stare vicino al dolore del figlio, attraversandolo insieme, provando a dargli senso».

Al fianco dei genitori è fondamentale il ruolo degli educatori: ma la loro carenza è una vera e propria emergenza nazionale. Senza di loro non si può avere a che fare in modo efficace con i ragazzi…

«In moltissimi lasciano il lavoro educativo per motivi economici e di fatiche insostenibili per mancanza di fondi e di energie, e soprattutto sono sempre di meno i giovani che scelgono la professione educativa. La lettura che io sento di poter fare è questa: dagli anni novanta in poi c'è stata una sorta di cementificazione delle teorie e delle tecniche in ambito educativo per cui l'educatore riteneva di poter applicare semplicemente delle metodologie, una volta sul campo. Ma quando sperimenta che il protocollo non funziona, vive soltanto la frustrazione della mancata riuscita del processo messo in atto. Secondo me è fondamentale che chi fa un lavoro di educazione continua a trovare spazi di formazione, ma che lavori anche su un percorso interiore. Tantissimi non riescono a stare in quelle situazioni complesse che esistono nel mondo reale, fuori dai libri. Perché non si può educare nessuno se non si è costantemente impegnato in un lavoro di autoeducazione. E su questo pesa il tema fondamentale del giusto riconoscimento economico per le professioni educative».

Ecco allora che per alimentari percorsi di educazione sentimentale e cura degli altri e di se stessi si può ricorrere a percorsi artistici. Di questo parlerà martedì 26 novembre alle 15:00 alla Biblioteca di Comunità di Bari

«E io chi sono? Questa è una domanda che ci facciamo continuamente non solo nell'adolescenza, ma continua ad essere portante anche nella vita adulta. Questo è anche ciò che anima la pratica dell'arte, che sia espressione del corpo a teatro, della musica o della pittura. L'arte, di questo parleremo, è un modo di stare nella realtà caratterizzata dalla ricerca e quindi dalla prospettiva di una domanda di senso in evoluzione come ci dicevamo prima e da una identità che è sempre in divenire. E per questo diventa un prezioso modo di stare al mondo».





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