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Il nunzio Kulbokas: ‘In questa guerra non ci si può illudere di trovare vie di uscite rapide’


Visvaldas Kulbokas, 50 anni, nunzio apostolico in Ucraina.

Inviata a Kiev

La sua missione diplomatica in Ucraina è cominciata alla fine del 2021, solo pochi mesi prima dell'invasione russa e l'inizio della guerra. «Se guardo le foto dei primi mesi del conflitto, marzo, aprile maggio, riesco a capire esattamente che mese si tratta solo guardando l'espressione dei volti, l'ambiente, l'atmosfera che traspare chiara dalle immagini», racconta Visvaldas Kulbokas50enne prelato lituano, attuale nunzio apostolico a Kyiv (ha preso il posto del cardinale Claudio Gugerotti). Lo incontriamo in Nunziatura a Kyiv al termine di una mattinata segnata da un attacco missilistico sulla capitale, dove si sono sentite esplosioni, dopo una notte di massicci raid russi estesi su molte regioni del Paese, da Zaporizhzhia, a Sumy a Kherson. L'offensiva russa va avanti con forza, senza accenni di de-escalation, con l'obiettivo di conquistare più territori possibili prima di arrivare a un possibile negoziato.

«Ogni persona che arriva qui in Ucraina dall'estero», osserva il Nunzio, «che sia giornalista, operatore umanitario, volontario o altro, viene molto apprezzata perché guarda gli ucraini negli occhi, condivide il loro dolore, esprimendo una solidarietà e una compassione pieno, reale. Chi viene in Ucraina lo fa perché davvero ha un interesse per questo Paese. Non come tanti politici che fanno discorsi da lontano, pretendono di capire tutto e di avere ricette fatte a tavolino, ma il loro cuore non è qui in Ucraina».

Monsignor Kulbokas, papà Francesco non smette mai di pregare per la martoriata Ucraina, che è sempre nei suoi pensieri. Quale ruolo può rivestire il Vaticano in questa fase del conflitto?

«Una guerra così pesante, complicata non lascia presagire soluzioni facili. Anche la Santa Sede è consapevole che non ci si può illudere di trovare con semplicità delle vie di uscita rapide. La Chiesa agisce lungo tre traiettorie: una è quella spirituale, che significa preghiera e testimonianza del Vangelo. In guerra è fondamentale un riferimento costante a Dio per chiedere la pace e per annunciare la speranza. Questo lo sottolineano i soldati al fronte: per loro – dicono – è molto importante la presenza dei cappellani, e anche dei volontari, nei quali intravedono un segno di umanità e di speranza. I cappellani permettono ai soldati di ricordare che con la morte non finisce tutto. Il secondo campo di azione è quello umanitario: l'aiuto diretto portato dall'elemosiniere pontificio Konrad Krajewski; il sostegno dell'ospedale Bambin Gesù, che in questi mille giorni di guerra ha curato 2.500 bambini; le attività delle due Caritas – Ucraina e Spes – e le iniziative di varie parrocchie, congregazioni religiose, centri e fondazioni come il Centro domenicano San Martino de Porres a Fastiv. Inoltre, va ricordato l'impegno umanitario della Santa Sede nei confronti dei prigionieri civili e militari e dei bambini ucraini che vanno rimpatriati dalla Russia. Il Vaticano ha un ruolo di intermediario: riceve le liste dalle autorità ucraine e le trasmette alla parte russa, attraverso la Segreteria di Stato o il cardinale Zuppi, inviato speciale dal Santo Padre in Ucraina. A questo proposito va sottolineato che l'azione del Vaticano non è diretta. La Santa Sede esercita una forma, per così dire, di intermediazione attraverso gli appelli del Papa che – come mi hanno confermato – hanno già influito molto sulla liberazione di alcuni prigionieri, in particolare di due sacerdoti greco-cattolici, padre Ivan e padre Bogdan, sequestrati a Berdyansk. A volte lo scambio e la liberazione di prigionieri, dunque, non si raggiunge in modo diretto e non è attribuibile all'azione della Santa Sede: si tratta del frutto di un lavoro comune fatto di tanti elementi – appelli, richieste – che comunque viene portato avanti dalle autorità ucraina. Vorrei sottolineare che siamo quasi alla fine del terzo anno di guerra e spesso questi meccanismi umanitari diventano più precisi e quindi efficaci nel corso del tempo, non danno risultati immediati».

La Chiesa cattolica – minoranza in Ucraina, Paese a maggioranza ortodossa – è impegnata in prima linea, come lei ricorda, in modo capillare, esteso e concreto nelle azioni caritatevoli, negli aiuti e nel sostegno alla popolazione. La Caritas è il primo agente umanitario nel Paese. Pensa che questo impegno di carità abbia avvicinato gli ucraini alla Chiesa cattolica?

«Quando Caritas Ucraina e Caritas Spes lavorano per la popolazione certamente non cercano di fare proselitismo. Però questa testimonianza sicuramente fa effetto: nelle regioni più vicine al fronte, io l'ho visto con i miei occhi, la gente piange quando riceve aiuto, che può essere anche solo del pane, dell'acqua, i beni essenziali. Ricevo testimonianze di sacerdoti e vescovi dell'Est che mi dicono che nelle loro chiese sono arrivati ​​fedeli nuovi. A Kherson, dove la popolazione è diminuita di almeno cinque o sei volte, il numero dei fedeli sia della parrocchia romano-cattolica sia di quella greco-cattolica è cresciuto. La diminuzione della popolazione, la fedeltà aumenta: è un fenomeno, magari non tanto esteso, ma tangibile. I cappellani militari mi raccontano che quando vanno al fronte pian piano i soldati arrivano da loro per chiedere la confessione, anche quelli che prima erano lontani dalla fede. E da parte dei militari c'è tanta gratitudine. Nelle parrocchie di tante città dove buona parte della popolazione se ne è andata per la guerra, sono arrivate altre persone, sfollate da altre zone, che hanno riempito il vuoto lasciato.

Pensa che gli ucraini oggi si sentano in qualche modo abbandonati, dimenticati dal resto del mondo, in particolare dall'Europa e dall'Occidente?

«La guerra in Ucraina è chiaramente molto più sentita in Europa, rispetto ad altri conflitti, per la sua vicinanza geografica. Questo però non significa che il livello di attenzione sia sufficiente. Tanti si aspettavano che le istituzioni internazionali, come le Nazioni unite, potessero fare qualcosa e, di fronte all'assenza di un'azione risolutiva, hanno la sensazione di non essere stati protetti e di essere stati lasciati soli. A proposito di Nazioni unite, io ritengo che il fatto di avere oggi un Consiglio di sicurezza in cui cinque membri permanenti hanno diritto di veto – Stati Uniti, Regno Unito, Francia, Russia e Cina – non funziona più perché abbiamo delegato a questi cinque membri tutte le decisioni sulla guerra. Questo meccanismo, sul quale abbiamo fondato il diritto internazionale, a mio avviso non funziona più – mettendo in questione tanti aspetti – e andrebbe riformato».





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