Il peso e l’onore di essere i figli di Liliana Segre
Diventare un testimone della Shoah non è stata una scelta facile per Liliana Segre. Come non lo è stato per i suoi tre figli crescere con due genitori “sopravvissuti”. Il documentario Liliana dRuggero Gabbai, presentato al Festival del cinema di Roma, in sala al Teatro Dal Verme di Milano il 12 novembre e destinato a un passaggio televisivo sulla Rai, si concentra per la prima volta in particolare su questo aspetto: come ha influenzato sulla vita dei tre figli (e successivamente dei tre nipoti) la consapevolezza che la madre aveva subito un orrore così indicibile, quanto di quel trauma si è inciso anche sulla loro pelle, come quel numero tatuato sul braccio che per molti anni della loro infanzia era qualcosa di misterioso di cui sapevano solo che «l'avevano fatto alla mamma degli uomini cattivi».
I due figli maschi di Liliana Segre, Alberto e Luciano Belli Paci, hanno accettato di parlare con noi della loro esperienza. Li abbiamo incontrati in due momenti diversi, perché diversa è la loro storia, diverso il loro percorso umano, anche se molti dei ricordi sono simili. «Io sono il primogenito, e porto il nome del nonno morto ad Auschwitz», inizia a raccontare Alberto Belli Paci, «e di cui sentivo parlare da mia madre come di un uomo speciale, sensibile, elegante, raffinato. Loro due avevano vissuto in simbiosi, perché mia nonna Lucia Foligno era morta quando Liliana aveva solo 11 mesi. E si erano separati con un ultimo sguardo dopo essere arrivati ad Auschwitz: questo però l'ho scoperto dopo. Ma da bambino sentiva su di me l'aspettativa di dover essere degno del nome che portavo».
Liliana Segre aveva incontrato il futuro marito, l'avvocato Alfredo Belli Paci, nella spiaggia di Pesaro quando era in vacanza con la nonna materna. Anche lui portava i segni dei campi di prigionia, dove era stato deportato per essersi rifiutato, da ufficiale dell'Esercito italiano, di combattere con i nazisti dopo l'armistizio. Si erano innamorati, nel 1951 si erano sposati. «Per mio padre proteggere mia madre era la priorità», continua Alberto. «In casa vigeva un ordine quasi militaresco, mio padre era molto severo, e guai se mi scappava una parola di troppo, così come se mi lamentavo per un piccolo incidente; Ai suoi occhi tutto pareva un'inezia a paragone con quello che aveva subito mia madre, anche se io ero solo un bambino e non capivo. Con l'occasione del documentario ci siamo confrontati molto tra noi tre fratelli. Quando sono nato io erano passati solo 8 anni dalla fine della guerra; poi col tempo i nostri genitori hanno trovato un loro equilibrio, e con gli altri figli hanno avuto un atteggiamento diverso, soprattutto con mia sorella Federica che ha 12 anni meno di me».
Anche se non se ne parlava, Auschwitz aleggiava in casa Belli Paci. Guai se i figli tagliavamo le bucce troppo spesse o sprecavamo cibo, i prodotti tedeschi erano vietati, ma sia Alberto sia Luciano furono affiancati da tate madrelingua tedesca. «Entrambi avevano sperimentato nei campi che capire o meno il tedesco faceva la differenza tra la vita e la morte», spiega Alberto, «e per loro, in modo molto irrazionale, far imparare quella lingua ai figli significava dargli uno strumento per potersi difendere» . «Solo dopo ho capito il grande sacrificio che facevano accettando che in casa loro si parlasse tedesco», ricorda Luciano, «perché era la lingua dei carnefici, degli ordini, della morte».
Scoprire che cosa era accaduta davvero a sua madre per Alberto è stato uno choc: «Avevo 15 anni, ero andato a cena da un parente che mi disse in modo crudo: “Ma davvero tu non sai niente dei forni?”, e davanti alla mia incredulità mi raccontò che mia madre era stata ad Auschwitz. Tornai a casa sconvolto, andai da mio padre a chiedere perché me l'avessero taciuto. Lui, quasi in lacrime, fece alcune ammissioni, ma mi fece giurare che non avrei detto nulla a mia madre. Anche per questo la mia fu un'adolescenza sofferta: ero un ribelle, mi facevo bocciare, ho cambiato diverse scuole, e ci ho messo anni di psicoterapia per fare pace con tutto ciò». «È quando sono nati i nipoti che la mamma ha deciso di parlare della sua esperienza», spiega Luciano. «Aveva paura di non farcela, e all'inizio non voleva che noi figli assistessimo alle sue testimonianze. Poi, quando andò per la prima volta a parlare nell'Aula magna della Cattolica, mi permise di esserci, a patto che non mi facessi vedere. Io ero in fondo, nascosto, e ascoltarla fu un'emozione fortissima».
Dopo le leggi razziali nel 1938, nel tentativo (poi risultato vano) di proteggersi i Segre si battezzarono e Liliana fu mandata a studiare dalle Marcelline. Luciano e Alberto sono stati educati quindi in modo cattolico, e poi hanno assunto posizioni diverse nei confronti della religione: Luciano da quando ha 14 anni si professa ateo, mentre Alberto è credente. Ma entrambi sono legati alla loro identità ebraica («non è un caso che ho chiamato mio figlio Davide», dice Luciano). Ed entrambi si sono impegnati nel tenere viva la memoria. Alberto fa parte del direttivo del Comitato Pietre di inciampo, Luciano, avvocato civilista ed esperto di diritto costituzionale parlamentare, da quando Liliana Segre è stata nominata senatrice a vita è diventato il suo assistente, ed è vicepresidente della sezione milanese di Anei, Associazione nazionale ex internati nei lager nazisti.
Liliana Segre ad Auschwitz non c'è più voluta tornare, così come finora nessuno dei tre figli ci è andato. «È un viaggio però che io voglio fare», dice Alberto, «ma insieme a Franco Vaccari, il presidente di Rondine Cittadella della pace, un'organizzazione cattolica di riconciliazione con cui collaboro da anni. Perché così che sarà un'esperienza molto forte, e avrò bisogno di un amico al mio fianco».