I roghi della violenza: quando la protesta diventa intollerabile
Un fantoccio che brucia. Il volto del ministro dell'Istruzione Giuseppe Valditara ridotto a cenere simbolica in mezzo a un corteo di studenti. Torino, venerdì, cuore della protesta contro il governo Meloni. Una scena che richiama i tempi bui della storia, quando il fuoco si usava per purificare, condannare, annientare. E invece no, stavolta non c'è nessun tribunale dell'Inquisizione: ci siamo noi, nel 2024, a guardare sgomenti l'ennesima degenerazione di una piazza che non sa più dove fermarsi. Si brucia un ministro oggi, ma chi sarà il prossimo? Un fantoccio, si dirà, mica una persona vera. Eppure, quel gesto è un simbolo che pesa come un macigno. L'abbiamo condannato ieri, quando l'allora presidente della Camera Laura Boldrini è venuta simbolicamente messa al rogo a Busto Arsizio nel corso di una manifestazione leghista. Lo condanniamo oggi, senza esitazioni, quando la vittima è Valditara e gli artefici sono gli studenti della collettività studentesca. Nessuna rabbia, nessuna causa, nessuna ideologia – né di destra, né di sinistra – può legittimare simili azioni. Nessuna rabbia, nessuna rivendicazione, nessun ideale, per quanto condivisibile, può legittimare la trasformazione della protesta in un tribunale improvvisato, dove i condannati vengono bruciati in effige. Non è con i roghi, né con i fantocci, né con i manganelli che si costruisce una società migliore. Questo vale per gli studenti, ma anche per chiunque scelga la piazza per esprimere il proprio dissenso. La lotta per la giustizia, sia essa scolastica, sociale o internazionale, perde credibilità nel momento in cui abbraccia i metodi dell'intimidazione e della violenza, anche solo simbolica.
Torniamo ai fatti. A Torino, gli studenti si sono mossi per criticare la gestione dell'istruzione da parte del governo, un tema che merita in teoria attenzione e dialogo. Tuttavia il confine è stato superato nel momento in cui si è passati dai cartelloni ai contatti fisici con le forze dell'ordine, dai cori al rogo simbolico. La piazza non può diventare un'arena in cui sfogare le proprie frustrazioni, trasformando il confronto in uno scontro. Gli studenti accusano il governo di essere complice di un presunto “genocidio del popolo palestinese”. Una questione delicata e drammatica, che – ammesso e non concesso che quanso sostenuto sia vero (ma il governo italiano è l'unico ad aver inviato una nave di soccorso per le vittime di Gaza ea denunciare la sproporzione la massiccia e devastante reazione israeliana dopo il 7 ottobre) – richiederebbe una riflessione profonda e pacifica, non un corteo armato di invettive e simboli di odio. Perché il rischio, altrimenti, è di far perdere di vista le ragioni della protesta, offuscate da gesti che dividono anziché unire. La violenza, in ogni sua forma, deve essere condannata senza se e senza ma. Non importa chi ne sia il bersaglio: un ministro, un'opposizione, la comunità ebraica, un cittadino qualunque. La piazza deve essere il luogo del dialogo e della proposta, non della distruzione. Questo non è un richiamo moralistico, ma un appello alla responsabilità collettiva. Senza rispetto, anche nella protesta, non c'è democrazia che tenga.