La vita che nasce è il primo segno di speranza
Marina Casini, presidente del Movimento per la Vita
Segni di speranza. Questo narra il Movimento per la vita in vista dei suoi 50 anni e del tradizionale convegno nazionale “Carlo Casini”, guardando al Giubileo. E lo fa a Mogliano Veneto per più di due giorni, con una serata inaugurale di testimonianze e voci dal mondo: l'ostetrica e sorella suar Valentina Sala, da Gerusalemme, e suor Gloria Riva, esperta d'arte, dal Messico.
A introdurre i lavori la presidente del Movimento per la vita, Marina Casini. «C'è un legame fortissimo tra il concepimento fino al tramonto della vita e la speranza. Non si può stare “da questa parte” se non c'è la speranza. Per trovare speranza bisogna avere il coraggio di dire la verità: ovvero che la vita è sacra. I Cav per San Giovanni Paolo II erano già allora segni di speranza: è la vita che vincerà sulla cultura dello scarto. Esattamente come i bambini che sono nati in questi 50 anni». Che cos'è allora la speranza? continua Casini. «Non è qualcosa di superficiale o episodico, ha una radice profonda che è la fiducia. La più grande? Sapere di essere stati creati per amare ed essere amati. Fonte vera e profonda della nostra speranza. Da qui tutto il resto: la riconciliazione, il perdono. Questa è la certezza che ci deve unire».
Al convegno, anche il saluto di papa Bergoglio attraverso le parole del Parole del Cardinale Pietro Parolin Segretario di Stato di Sua Santità. «Il Sommo Pontefice rivolge agli organizzatori e ai partecipanti tutti il cordiale saluto, rinnovando apprezzamento per l'opera svolta in difesa della Vita umana e, mentre auspica che l'evento consolidi la consapevolezza del rapporto esistente tra ricerca scientifica e rispetto dei valori etici, assicurate il ricordo nella preghiera e inviate volentieri la benedizione apostolica pegno della continua assistenza divina».
E del cardinale Matteo Zuppi: «Difendere la vita è far crescere la cultura della vita. Del vostro impegno apprezzo l'attenzione per ogni uomo, dal concepimento». E ancora: «Il vostro contributo è prezioso perché nella Chiesa e con la Chiesa. Collabora con le iniziative e con la testimonianza personale, affinché sia riconosciuta la uguale dignità di tutti e in tutti i momenti della vita. Non la si ama solo in una delle sue stagioni! E la si ama per tutti. Dunque, anche del figlio concepito e non ancora nato fino al suo ultimo respiro».
Suor Valentina Sala in collegamento da Gerusalemme
Intenso e appassionato il racconto da Gerusalemme di Suor Valentina Sala, della congregazione di San Giuseppe dell'Apparizione. Consacrata e ostetrica per anni al Saint Joseph Hospital di Gerusalemme est e oggi trasferitasi a Gerusalemme ovest. Tra situazione mediorientale, presenza e ruolo dei cristiani, vocazione e impegno per la vita. «La sofferenza più grossa» ha esordito in collegamento «è che sono completamente sparite le prospettive dopo il 7 ottobre. Manca la volontà di cercare alternative alla distruzione reciproca. Quando l'unica posizione, invece, è fissare in mezzo. Stare e non schierarsi».
Intervista da Francesco Ognibenegiornalista di Avvenire, la suora ha testimoniato il ruolo dei cristiani a Gaza. «La cosa bella è che la parrocchia di Gaza sta distribuendo aiuti a tutti. I cristiani locali sono innanzitutto palestinesi. Non è stato facile mettere la fede prima dell'identità, mantenere questo ruolo di riconciliazione. Cosa va riconosciuto ai cristiani di qui? Che non c'è una scelta di violenza, anche negli attenti non sono mai i cristiani gli artefici». La crisi medio orientale vista dalla sala parto. In che modo la vita parla a tutti? O restano le divisioni? «Ho visto per anni una certa violenza aggressività nell'assistenza al parto. Ho sognato togliere la violenza dalla sala parto: chissà che nascendo in pace, mi sono detta, non si cresca in pace». Inserendo il parto in acqua «sono arrivate anche donne ebree che si mettevano nelle mani di personale palestinese. Quello che ha costruito relazioni e fiducia reciproca è stato il prendersi cura. Una sorta di compassione che ha fatto cadere molti pregiudizi».
Mamme ebree o mamme palestinese, c'è differenza? «Culturale e sociale, ma sono tutte mamme non cambia il vissuto materno o l'attenzione al figlio. Nel contesto arabo, il sostegno familiare è molto forte. È stata la prima volta che in sala parto ho visto la mamma e la suocera. Il marito in un angolo. Le donne musulmane sono libere, istintive. Quelle ebree sono più europeepiù cerebrali: è difficile talvolta farle scendere nel loro corpo capendo che la vita non passa dal cervello».
Vocazione religiosa e vocazione alla vita, l'ostetrica. Cosa è nato prima? «Quella che ho capito prima è stata all'ostetrica. Avevo 16 anni quando è nata mia sorella, sono la prima di 4 figli e mia madre da sempre nel Cav ci ha insegnato il rispetto alla vita. Quando sono andata a trovarla in ospedale e ha pronunciato la parola “ostetrica” mi si è conficcata nel cuore. Una vera vocazione. L'altra, quella religiosa, è nata dall'incontro con le sue dell'Apparizione. Avevo trascorso da loro qualche giorno a Como perché dovevo studiare per prepararmi agli esami dell'università; Avevo 25 anni e un ragazzo da quattro. Lì il Signore ha preso il sopravvento. Il giorno prima della tesi ero seduta a terra e mi sentivo morire. Gli ho chiesto cosa fosse. Aprendo il Vangelo c'era il brano dei Getsemani: ho trovato nel Signore i miei stessi sentimenti, chi davvero mi capiva. Era la presenza di Dio in quel buco. Ho lasciato il mio ragazzo, il posto di ostetrica al San Gerardo di Monza e per nove anni sono entrato in convento». Dieci anni dopo, a Gerusalemme, Alla fine di una mattinata nell'ospedale di Betlemme «sono andata nella grotta della natività e ho pregato in silenzio Gesù. “Tu sei nato, sai come si fa”; e Maria “tu hai partorito, sai come si fa”; e Giuseppe “tu sei stato accanto, sai come si fa”. Se dobbiamo aprire una maternità che sia secondo il sogno di Dio. In quel momento un signore mi ha messo la mano sulla spalla e mi ha benedetto. Mai avrei immaginato di vedere gli effetti di questa maternità e di questa comunione».
Talvolta in Italia il servizio dei Cav viene malinteso. Come si riesca a persuadere sulle buone ragioni… «Continuando a farlo. Non si cerca il consenso delle persone quando si difende la vita, ma non si deve giudicare sentendosi dalla parte giusta. Si fa il servizio perché si crede nel servizio. L'incomprensione è il segno che si sta facendo bene. Non è l'opinione pubblica, ma la vita delle persone che tocchi e si trasforma».
Speranza II di Gustav Klimt
Dal Messico, l'intervento di Suor Gloria Riva, superiora delle monache dell'Adorazione perpetua del Santissimo Sacramento di San Marino e storica dell'arte. «Nel 1998 San Giovanni Paolo II esortava perché ogni impegno e sacrificio veniva ricompensato dal sorriso di tanti bambini e perché il diritto alla vita fosse riconosciuto da tutti. Voglio salutarvi attraverso un'immagine a me molto cara di Gustav Klimt, pittore austriaco. Klimt amava le donne esili simili a veline, un giorno rimase affascinato da una modella incinta. Era il 1903. E la ritrasse totalmente nuda. Aspettai, però, a esibirla in occasione del sessantesimo compleanno del principe Francesco per non scandalizzare. Nel 1907 una seconda opera. Una donna esile, ma concentrata sul suo nascituro. Indosso un abito che incarnava la primavera, pieno di fiori. La mano è alzata verso un teschio della morte. In questo dipinto la rappresentazione del dramma della vita minacciata sin dal concepimento dalla morte. Sul fondo dell'abito, tre donne che sembrano vinte dalla minaccia dall'aborto destino segnato per chi, allora, lavorava come modella. Tutte e due le opere le chiamò Speranza (Speranza Cioè Speranza II). Perché ogni via che nasce è una speranza in atto e chi la difende è un pellegrino della speranza».
Presente anche alla serata inaugurale Manuela Lanzarin, assessore alla salute della Regione Veneto. «La famiglia è centrale e bisogna mettere in campo tutte le azioni possibili per difenderla».
Foto di copertina, Istock