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Il povero ormai ci fa paura


la filosofa Adele Cortina.

Il grande drammaturco Maxim Gorkij lo aveva già rappresentato nell'Albergo dei poveri: chiunque può scivolare nell'indigenza e rimanere intrappolato in una condizione esistenziale da cui è impossibile risollevarsi, disprezzato dal resto del mondo. Questa condizione di emarginazione, uguale a quella di chi è escluso per razzismo (ad esempio gli afroamericani), condizione sociale (gli immigrati oi clochard), etnia (i rom) ha un nome: aporofobia. Uno dei modi in cui la povertà si manifesta infatti è la discriminazione. E è forse il male peggiore, più della fame, della sete, delle condizioni igieniche precarie, della mancanza di vestiti. Chi scrive ha visitato il quartiere di tende e baracche di lamiere del quartiere di Cité Soleil, ad Haiti, nel Quarto Mondo. «La povertà fa schifo», continuava a ripetere il missionario passionista padre Rich Frechette, l'angelo dell'isola, mentre passavamo in rassegna gli slum popolati da bambini coi vstiti laceri. Ma posso garantire che i bambini scalzi che giocavano nelle strade di fango erano molto meno infelici dei ragazzini disadattati del quartiere catanese di Librino. Non c'era paragone tra lo sguardo gioioso degli abitanti di Port-au-Prince e quello dei coetanei poveri siciliani, immalinconiti e disprezzati dai loro coetanei “borghesi” del quartiere, soprattutto quando andavano a scuola. Sembrerebbe strano, probabilmente perché non si tiene in mente che le persone povere possano essere discriminate per la propria condizione svantaggiata. Ma la realtà dei fatti è altra. Infatti le persone in difficoltà economiche subiscono delle discriminazioni fisiche o psicologiche, o meglio, subiscono discriminazioni per aporofobia. L'espressione unisce due termini greci: “aporos”, privo di risorse, e “fobos”, paura e timore. L'aporofobia è il rifiuto, il timore, il disprezzo della povertà. Il povero ruba. Il barbone puzza. La rom rapisce i figli degli altri. Un atteggiamento che pesca nell'inconscio, anche perché nel povero vediamo qualcuno che potenzialmente anche noi avremmo potuto essere. Il povro è la nostra immagine in uno specchio deformato.
Il termine è stato coniato dalla filosofa spagnola Adela Cortina, durante la crisi migratoria in Europa negli anni Novanta del secolo scorso. Il merito della studiosa è stato dare un nome – riconosciuto dalla Real Academia Espanola e perfino inserito nel codice penale iberico – a un fenomeno che era presente ma non era riconosciuto. E di conseguenza non era contrastata.
Un neologismo che non rientra nel vocabolario italiano ma che esiste nei fatti. Nel 2023 il 22,8 per cento della popolazione italiana è a rischio povertà. Gli ultimi dati Istat sul reddito delle famiglie e le loro condizioni di vita ci parlano di una lieve attenuazione, dovuto al sistema di misure di sostegno (assegno unico universale e altri bonus una tantum) che mirano a lenire il fenomeno, ma di un lieve aumento della popolazione (il 4,7 per cento) in condizioni di grave deprivazione materiale e sociale, come gli homeless. I più colpiti dall'aporofobia. Le persone residenti in Italia che risultano a rischio di indigenza sono circa 11 milioni e 121mila: hanno avuto, nell'anno precedente l'indagine, un reddito netto equivalente inferiore al 60 per cento di quello mediano (11.891 euro l'anno), spiega l'Istat. Rispetto al 2022 si osserva un aumento delle condizioni di grave deprivazione in particolare al Centro e al Sud e nelle Isole. «Il disprezzo per il povero – ha detto in più occasioni la filosofa di Valencia Cortina, autrice di Aporofobia – è un'autentica piaga sociale ed era giusto darle un nome perché ciò che non ha un nome non esiste». Alla base di questo atteggiamento è il ruolo ancestrale di scambio reciproco titpico dell'uomo. Siamo disposti a dare a condizione di ricevere: «Viviamo in uno scambio di favori, denaro, voti, posti di lavoro… Escludiamo coloro che non sembrano avere nulla di interessante da scambiare, che non hanno nulla di interessante da dare. O almeno così crediamo. Preferiamo approfittare di loro o fare finta di non vederli? Dobbiamo renderci conto che ogni persona vale di per sé e non bisogna considerarla per ciò che si può ottenere da lei. Tutti hanno un valore. Ma preferiamo non vederlo. Parlare della povertà ti costringe a scendere in un luogo dove non vuoi stare». La filosofia cita un caso brutale: «Quando alcuni ragazzi danno fuoco a una donna senza tetto in un bancomat. È un'aggravante dei reati d'odio, di solito commessi da ragazzi giovani che escono a divertirsi e che non sanno più come finirla. È terribile e fortunatamente eccezionale. Ma, in effetti, il nostro cervello è aporofobo, abbiamo una predisposizione da trascurare chi non ci darà nulla in cambio. Ora, avere una predisposizione non significa avere un obbligo. Questo si può correggere».
Ma intanto il mercato immobiliare, fateci caso, è totalmente aporofobo. E lo stesso vale per gli immigrati. «Dobbiamo disattivare l'aporofobia e promuovere altre dimensioni del nostro cervello che sono molto più positive», conclude Adele Cortina.
Grazie al lavoro di Adela Cortina, alla sua mente brillante e ai suoi scritti, abbiamo oggi un nuovo strumento che ci permette di interpretare le dinamiche sociali, di dare un nome proprio ad un fenomeno diffuso (e in crescita) e che mina alla base la convivenza sociale e l'azione civica della solidarietà. L'aporofobia potrebbe essere la grande pandemia del nostro tempo: la filosofia ci ha aperto la strada identificandola ed etichettandola, ora spetta a tutti noi affrontarla.





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