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Quando l’avvocato Pinelli, ora vicepresidente del Csm, metteva in guardia dai rischi del Pm separato



«La separazione delle carriere si mostra come una sorta di necessità strutturale del nostro architrave ordinamentale, al cospetto della – oramai ultra ventennale – costituzionalizzazione del “giusto processo”, che esige terzietà assoluta del giudice, rispetto alle altre parti processuali. Al contempo, tuttavia, l'appartenenza comune del pubblico ministero, al medesimo ordine giudiziario del magistrato giudicante, limita il rischio dello strapotere investigativo del primo: lo protegge dal vulnus della sua – per così dire – retrocessione amministrativa, a mero organo di vertice della polizia giudiziaria. Questa idea di pubblico ministero, a ben vedere, offre molte meno garanzie per la tutela dei protagonisti del processo, rispetto all'attuale standard del suo ruolo giurisdizionale, e potrebbe incidere sulle libertà e sui diritti degli individui in modo particolarmente significativo».

In soldini: con separazione la i rischi messi sul piatto della bilancia superare i benefici rispetto al sistema attuale. Si potrebbe pensare che a mettere in guardia con queste parole dal rischio che una eventuale riforma in direzione della separazione delle carriere portasse al cittadino sotto processo penale, nella pratica, più danni che vantaggi e minori garanzie fosse un magistrato, come racconto interessato direttamente alla questione , oppure una figura vicina all'opposizione sui temi della giustizia. E invece no: a scrivere queste cose era, il 10 gennaio 2023 su Questione Giustizia, Fabio Pinelli, avvocato, penalista del Foro di Padova, al di sopra di ogni sospetto in fatto di pregiudizi ideologici rispetto alla maggioranza, tanto che è stato votato, come membro laico, alla vicepresidenza del Consiglio superiore della magistratura su proposta della Lega, ed è attualmente in carica.

Lo scriveva nel contesto di un di un intervento intitolato “Le prospettive di una riforma penale”, in cui lo stesso invitava altresì a far funzionare l'esistente prima di riformare nuovamente la giustizia, a deporre le armi ea lasciare alla riforma Cartabia il tempo di stabilizzazione necessaria per essere metabolizzata dal sistema: «In assenza di una adeguata “pausa di applicazione”», concludeva, «appare concreto il rischio di una generale destabilizzazione del sistema giudiziario e di una compromissione del percorso di ricostruzione del rapporto di fiducia tra politica, magistratura e cittadini, quanto mai necessario». La questione è più pragmatica di quanto sembri: l'instabilità delle norme, la difficoltà per il sistema di assorbire continui cambiamenti è infatti uno dei problemi più sentiti da chi pratica quotidianamente in qualsiasi ruolo le aule di una giustizia che somiglia a un cantiere destinato a non vedere mai una fine lavori.





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